Il rumore sordo dei movimenti ritmici sul selciato era il raccolto della sua giornata. Aveva imparato, col tempo, a costruire attraverso i passi, il peso e i volti delle persone. I ricchi, i benestanti, avevano un ondeggiare pesante, a tratti impacciato e difficilmente si fermavano. Quando lo facevano era per osservare distrattamente con occhi disadorni, lievi sfumature di pietà, mani indaffarate e smarrite alla ricerca di piccole monete, apparentemente insignificanti per quelle tasche ma che rappresentavano, per Straccino, un panino solitario o, se quelle tasche decidevano di aumentare la dose di commiserazione, diventavano fetta di salame, acqua e alcune volte birra o vino. Chi aveva passi rapidi raccoglieva la solerzia del lavoro, dell’appuntamento ormai mancato, dello scrutare l’orologio affannosamente. Difficilmente lasciavano qualcosa, difficilmente osservavano. Non che non sentissero la necessità di poterlo o doverlo fare, ma avevano l’incombenza di dover essere, in quel momento da tutt’altra parte. Straccino aveva lievi sorrisi per questi piedi sofferenti. La fretta nascondeva ansie recondite, voglia di esserci, ma non rappresentava la velocità, la bellezza del correre mangiando il vento come era accaduto a lui. In un’altra vita. Li compativa e forse li tollerava anche se non aveva mai considerato il perdono una virtù e neppure un’etica di comportamento. Vi erano passi velati, quasi intimi, che rappresentavano quasi sempre donne sole. Sentiva che frugavano nelle loro piccole borsette di finta pelle, assaggiava lo sguardo di condivisione, quell’esserci senza apparire, quella mano che si avvicinava e che quasi lo sfiorava, rappresentava un’immutabilità antica. Era quasi condivisione. Poi c’erano le donne “altre” quelle con i tacchi a spillo che, infagottate di vestiti profumati, difficilmente si fermavano. Chi aveva le chiavi in mano, per esempio, non era mai disposto a concedere una moneta. Servivano per la macchinetta del parcheggio poco più avanti della sua postazione. Infine i bambini. Passi rumorosi e sprovveduti, carambole di vita, leggerezza estrinseca, voglia di scoprire. Si accompagnavano, quasi sempre, a passi di genitori o di nonni o di amici. Difficilmente camminavano da soli. Non era semplice raccogliere scarpe da tennis solitarie. Eppure ci trovavamo al centro, strada gonfia di negozi e di luci. Passavano di tanto in tanto i poliziotti di quartiere, a volte i vigili e proprio vicino a Straccino vi era, quasi sempre, la ragazza dei parcheggi, scarpe goffe e capelli troppo colorati, col suo taccuino in mano, in attesa di monete per un servizio tutto sommato inutile ma ormai divenuto parte integrante delle tradizioni di tutte le città. Come Straccino. La pallina si depositò, incredibilmente, proprio dentro il suo barattolo e sentì il rumore sordo che non era lo stesso delle monete. Alzò lo sguardo per capire questa insolita pertubazione sonora che si era finita nella sua cassaforte portatile e si accorse che si erano materializzati due piedi abbastanza grandi per essere un bambino e probabilmente piccoli per appartenere ad un uomo. Quei piedi non si muovevano. Stavano lì, disuniti e fieri, diritti che non producevano nessun rumore. Quei piedi erano un silenzio contemplativo, di attesa, un silenzio curioso e statico che non aveva mai provato. Erano i piedi di un ragazzino, jeans e felpa bianca, occhi fertili di curiosità, mani lunghe e dinoccolate, sguardo incredibilmente immenso. Come il mare che lievitava, spruzzi che si propagavano, vita che si propagava. Si abbassò ad un certo punto per cercare la pallina. Ma non la prese. Attese che a farlo fosse Straccino che consegnò la palla al ragazzino e le loro mani si sfiorarono. Era un contatto che aveva quasi dimenticato. Era un contatto che non rappresentava niente, se non la fugacità di un incontro, la casualità di un centro tra mille possibili tiri dentro un barattolo, un tiro da trecento punti se fosse per il basket, un pallonetto dalla difesa se qualcuno avesse pensato al calcio. Straccinò però non pensò allo sport né al ragazzino. Gli porse la pallina. Il bambino lo guardo e disse: “te la regalo”. Era l’unica cosa che era finita nel barattolo quel giorno. Ma era la cosa più luminosa e dolce che avesse mai visto. Il bambino riprese la sua strada, senza la pallina. Straccino quella piccola sfera la strinse forte. Un regalo, un attimo di felicità.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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