Mi chiedevano sempre: “Ma tu da grande cosa vuoi fare?” “Guidare l’elicottero” dicevo io. “E perché proprio l’elicottero?”, “Perché ha le pale che girano e vola alto, orizzontale, subito, senza bisogno di rincorsa. Poi puoi salire veloce veloce, stare in alto e vedere tutto più piccolo, più semplice da guardare”. Capisce maresciallo? Lo so, lo so che è solo appuntato e si è rotto le palle di ascoltare questa storia ma, giuro, è la cosa più bella che ricordo della mia infanzia. Di quando ero piccolo. Perché sono rimasto davvero poco bambino. Mica c’era tempo per i sogni e per i giochi e per le cazzate. Mio padre mi guardava con interesse già quando avevo sei anni. “Puoi aiutare a portare i mattoni rossi, quelli bucati” ed io dopo la scuola correvo in cantiere da babbo a carrare cantoni. Capitò marescià che cazzo di padre ho avuto? E poi quella stronza, quella faccia da santa che santa non è… ha capito di chi parlo? L’assistente sociale marescià. Come la devo smettere? E perché la devo smettere, lei non si ricorda quella che viene qui e fa le domande e cosa vuole fare e il lavoro e sua madre e sua moglie e i bambini e i cazzi che non ti riguardano. Dove eravate quando mastru Pisolino mi ha cacciato dal cantiere. Basta, via, che posto per te non se ne trova più. Pezzo di drogato. Così mi ha detto e l’ho ha detto davanti a mia figlia di cinque anni. Ha capito Ispettò questo stronzo fottuto cosa mi ha detto? Eh, ho capito, lo so che sono drogato e che mi faccio, anzi mi facevo, come ho detto all’educatore e quello mi ha guardato di lato e ha risposto che tutti dicono così. Ma io me ne fotto dei tutti, me ne fotto dell’educatore e dell’assistente sociale e non m’interessa se non mi fanno dare il permesso. Lo sa brigadiè che cosa faccio quando esco? Vado all’aeroporto entro dalle reti, quelle dietro il mare e mi rubo un elicottero. Mica devi prendere la rincorsa. Metti in moto e tiri la leva. Non è facile? E lei cosa ne sa di rubare e di elicotteri? Lei è sempre qui a chiuderci in cella e ascoltare le cazzate che diciamo. Lo so che lo fa per mestiere, mica si fanno gratis i guardiani degli zoo. Comunque ispettò, a le dico una cosa, ma vera però, mica le stronzate che dice reuccio o Pidocchietto. Io, se viene l’assistente sociale domani le dico che se mi fa uscire me ne vado a pescare con mi figlia. E nessun altro. Niente donne, niente droga, niente di niente. Solo mia figlia e la canna da pesca. Perché brigadiè io sono un bravo ragazzo ma nessuno mi ascolta. Ma cosa fa, se ne va? Deve finire il giro? Non fugge nessuno dalle gabbie brigadiè. Siamo animali malati e inutili. Siamo anche senza coraggio. Se ci avevamo un po’ di palle non avremmo rapinato i vecchietti o il motorino ai ragazzini. Capito marescià?
Andato. Come sempre e adesso non ho né orecchie che ascoltano e neppure sigarette. Certo. Il nostro è un gioco. Quello vecchio da guardie e ladri e io poi sono anche un ladro sfigato, malato, impasticcato, autolesionista, che si taglia per il gusto di tagliarsi e che sono anche un problema psichiatrico. Ho tutti i mali perché così, durante la giornata, ho la possibilità di uscire e vedere molta gente: dottore, infermiere, educatore, psichiatra. Ho sempre pensato che se faccio la domandina per il ginecologo quelli mi mandano alla visita. Ma non sono scemo. Questo no. Ho imparato la scena. Adesso è difficile fare l’attore. Ci credono in pochi. Perché la galera io la conosco da molto tempo e le parti le ho recitate tutte. Quelle del bravo detenuto, quello del figlio di puttana, del malato terminale, del piantone, dell’amico degli sbirri, del leccaculo, dello stronzo, del poeta folle. Tutto. Ho provato tutto. E adesso che ho deciso di essere me stesso, nessuno mi crede. Nessuno. E un po’ hanno ragione. Il problema è che io la fissa dell’elicottero ce l’ho davvero. E’ bello poter volare senza dover prendere una lunga rincorsa. Potere, con un balzo, toccando una leva, salire subito e vedere tutto che si rimpicciolisce. Non ci sono mai stati sopra un elicottero. Ma ho visto i film in televisione. Ho visto come funziona in Internet. Perché poi, alla fine, mica sono scemo del tutto. Hanno fatto il corso di informatica ed era il tempo in cui l’educatore mi seguiva di più e ho fatto la domandina per entrare nel corso perché volevo imparare il computer. Mi ci hanno infilato e speravo di navigare, così come mi diceva mia figlia, ma non era possibile. In carcere non c’è internet. Ci hanno fatto vedere le cose “fuori linea” ma abbiamo imparato, meglio ho imparato e quando sono uscito con l’indulto sono riuscito a vedere come funziona un elicottero. E ci sono anche i giochi ma quelli io non li amo. In questo cazzo di posto non c’è mai nessuno che abbia una sigaretta. Non lavoro e non ho soldi. Le sigarette si rimediano se aiuti qualcuno a rifarsi il letto, se cucini per qualcun altro. Ma io niente. A questo giro ho deciso di starmene da solo. Lo sanno tutti che devo riflettere. Parlo a voce alta la notte e la mattina rifletto. Soprattutto dopo aver letto. Perché in questa carcerazione ho deciso di capire. Capire perché sono diventato un attore formidabile, capire perché tutto sommato finisco sempre dentro queste celle anguste, capire perché ho dentro una strana malinconia che mi assale. E non la racconto a nessuno. Lo psichiatra parla di ipocondria e mi butta qualche pastiglia in corpo che sono costretto a ingurgitare davanti ad un infermiere annoiato che mi osserva distratto. L’educatore ha detto che può essere paura di confronto, di uscire da quest’apatia che è il carcere, il problema è però che io non riesco a confrontarmi con gli altri, che ho terminato una fase e ne ho cominciata un’altra. Ho letto per anni, quasi di nascosto. Ho letto e ho cercato di capire, perché questo mi sembrava utile e importante. Ma ho capito e l’ho capito senza leggere, che non basta essere colti o conoscere le cose, non basta, insomma, avere un abito buono. Ci vogliono le credenziali. E io con il diplomino di web master preso in galera non posso permettermi di cercare un lavoro decente, perché un tossico sempre tossico rimane. Etichettamento ha detto il criminologo. Mi viene da ridere quando sento questa parola. Sono importante, ho pensato. Un tipo da etichetta. Un po’ Giorgio Armani o Dolce e Gabbana. Il criminologo ha provato a farmi capire che non è la stessa cosa e io ho costruito facce di meraviglia a queste spiegazioni. Facce che piacciono molto ai criminologi ed educatori. Ma anche alle assistenti sociali. Insomma, mi sono costruito un alibi che tutti condividono. Mi guardano con percorsi diversi. Mi credono uno pronto per attraversare la via di Damasco. E io faccio credere di avere incollato un nuovo abito addosso. Un attore consumato. Con gli agenti allegro e amicone, con gli operatori del “trattamento” riflessivo e pronto a rimettersi in gioco sempre. Con me stesso solitario e duro. Non riesco a sopportarmi quando ritorno dentro le curve della mia esistenza. A ripercorrere le stagioni consumate dentro le panchine dei giardini. Non si parlava di donne o di calcio o di cazzate. Di droga. Di come farsi, di quando farsi, di riuscire a farsi. Non ci siamo mai chiesti il perché. Non aveva troppa importanza. Eravamo troppo presi da quel nostro vivere ai margini di tutti, a convincerci che quello era l’unico universo possibile, senza mezzi termini, senza problemi da discutere, senza nessuno che ci dicesse quello che dovevamo e potevamo fare. Ho creduto per anni che questo fosse l’unico mondo possibile. L’unico su cui gravitare proprio per l’assenza di gravità. Questa è l’eroina dentro la vena. Assenza da tutto e da tutti. Mongolfiera che si agita in un cielo sempre terso, sempre soffice, un auto che cammina dentro le curve senza sterzare, che accarezza gli argini della memoria e la cancella, eroina è lo svuotamento dei cassetti gonfi di problemi e di domande e di futuro. Non c’è domani dentro l’eroina. C’è una solitudine dolce che vaga e che ci mantiene incollati alla vita solo ed esclusivamente per il prossimo buco. Siamo diventati spazzatura perché non avevamo riposte nelle nostre tasche. Ma lo siamo diventati, soprattutto, perché anche gli altri, quelli che ci guardano e ci osservano e ci trattano e ci vogliono “salvare” hanno deciso, in maniera minimalista – parola che usa sempre l’educatore: sono un minimalista, dice – di buttarci dentro le galere e di lasciarci. Quando non si ha niente da fare, quando per qualche giorno non ci sono notizie gli sbirri entrano ai giardini e ci raggiungono e ci guardano. Decidono che occorre raccogliere le buste dell’immondizia e buttarle via. In carcere. Per qualche giorno, settimana, mese. Così. Perché il giorno successivo possano apparire i loro nomi sui giornali per la brillante operazione conclusa: “Sgominata una banda di malviventi, pregiudicati, lestofanti, drogati,. Grazie all’intervento dell’Ispettore Sereni, del Vice sovrintendente Massimi e dell’assistente Perlisi i giardini sono più vivibili. Cosa si riesce a fare per un attimo di celebrità dentro un quotidiano inutile e gonfio di cose esclusivamente minimaliste. Però è quello il mondo che ci hanno dipinto. Vivere al minimo, senza grandi scosse, senza tumultuosi sussulti. Bastano piccole cose, minimali, di nicchia. D’altronde sono le più genuine. Non c’è posto per chi decide di colorare il mondo in maniera diversa. Picasso, per esempio, era un pazzo visionario che è riuscito ad imporre il suo genio. Un tossico non impone niente. Non può imporre un modo di vita che presuppone il nulla come progetto di governo. Un nulla colorato e dolce senza sangue che si muove, senza saliva che si agita. Il nostro è un mondo dove tutto si appiana, dove le colline sono piallate e gli alberi orizzontali. Dove le parole sono attimi che si assottigliano, che rinchiudono storie che nessuno vuole raccontare. Minimalismo. Eppure ero stato costruito per stupire. Per fare l’eroe, usare l’elicottero, planare dentro le storie impossibili, sfiorare i grattacieli, costruire missioni impossibili e sono atterrato in un altro emisfero dove non si vola mai, non si ha la voglia né il tempo. Non si ha la forza per fare gli eroi. Allora mi sono costruito un alibi, ho deciso di fare l’attore, di entrare dentro mondi paralleli, di essere clandestino in un mondo apparentemente normale. Perché è questo, in fondo, che tutti chiedono di fare: il tossico, in carcere cretino con le guardie, disponibile con gli altri. Remissivo, senza pensieri profondi e con sguardi distesi, appiattiti. D’altronde è questo il ruolo dentro, ma soprattutto fuori: è bella la favola del tossico che si redime, che non si buca, che è passato in comunità, che adesso aiuta gli altri ad “uscire”, che è disponibile a ripartire. Allora brigadiè, tutto a posto? Che fa non dorme stanotte? Devo contarvi, lo sai. Non perda il conto brigadiè e stia attento perché aspetto un elicottero che mi venga a prendere. Si, ma non fumare troppo che magari ti può far male. Ed invece, l’elicottero è arrivato. Ma non per fare l’eroe. Ma per guardare questo loro mondo dall’alto. Da molto in alto. Così, almeno per un attimo li stupirò. Un attimo solo.
Mario, morto suicida nel carcere, nel 2004. Oggi avrebbe 38 anni e, anche senza brevetto di elicotterista, poteva continuare a spiegarci il suo piccolo mondo. Minimalista.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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