Io da bambino amavo un cantastorie. Di favole quando lo conobbi ne sapevo già tante, ma il primo vero contatto con la Favola avvenne con lui. E capii d’istinto, molti anni prima di leggere Propp, tutti i movimenti su e giù dell’Eroe e ogni altro anfratto della struttura narrativa, mi abbandonai al grande potere evocativo della storia, quello che secondo Jung e Bettelhein, come scoprii un mucchio di tempo dopo, ti condiziona conscio, inconscio e gli altri angoli del cervello. Questo cantastorie io non è che lo trovassi per strada. Veniva a casa mia e si nascondeva dentro una roba che mio padre aveva comprato poco prima, una scatola di legno con un vetro davanti su cui comparivano immagini in bianco e nero. Qualche volta il cantastorie mi ripeteva le storie di Pinocchio o di Sussi e Biribissi o la favola della Bella Addormentata o altra roba così. Ma Pinocchio nelle sue storie era più simpatico da burattino disobbediente che da bambino tutto gna gna e lui mi spiegava che Collodi lo voleva proprio così: “Sai, Collodi è delle mie parti: lo so bene cosa vuole”. E la Bella Addormentata la commentava con un sorrisetto da cui si capiva che proprio addormentata non era. Ed era il principe che forse si doveva svegliare. Altre volte mi cantava con un’altra signora dalla voce roca e bellissima – Laura Betti, si chiamava – la storia di due vagabondi innamorati che ogni mattina dovevano svegliarsi per fare il loro dovere, che era quello di andare in giro per la città a raccontare la loro storia. E la loro storia era quella di due vagabondi innamorati che ogni mattina dovevano svegliarsi per… E mi piaceva da morire anche quando il mio cantastorie si metteva un cappello a cilindro, si sedeva di sbieco su un tavolo che sembrava Lilli Gruber e ridacchiando, come a dire prendimi sul serio ma non prendermi troppo sul serio, mi raccontava i miti più belli del mondo, da quello di Faust che non vuole invecchiare a quello di Icaro che non conosce i suoi limiti. E alla fine cantava una canzone sempre la stessa che non c’entrava niente ma mi faceva impazzire. Pensate che dopo più di cinquant’anni me la ricordo ancora: Bitter Campari è l’aperitivo Che piace a tutti chi non lo sa? Bitter Campari ti rende giulivo Ti dà quel pizzico di buonumor Bitter Campari perché con l’appetito la vita sorride anche a te. Che cazzata, vero? Eppure la prima volta che da ragazzo ebbi accesso a quella misteriosa bevanda, ritrovai tutte le sensazioni descritte da quel jingle e ancora adesso, quando me la concedo con tutto il rituale di scorze d’arancia e cubi di ghiaccio che ne esalta il valore mitico, seduto al tavolino accanto al mio c’è sempre il mio cantastorie che mi sorride e mi rivolge signorili e contenuti cenni di approvazione. Poi, quando ero già grandicello, metti in terza media, in una sala da biliardo c’era un tale del liceo molto ammirato perché era bravo a boccette, aveva appena vinto un campionato, e giocava a soldi. Lo vedo ancora in giro. Ora è un vecchio di quelli che litigano con tutti e credo che nella vita il suo punto di eccellenza sia stato appunto quel campionato di boccette. Ebbene, una volta in non so quale discorso mi capitò in quella sala di citare il nome del mio cantastorie e il campione di boccette mi guardò con un sorrisino di commiserazione: “Ma non sai che quello dà il culo?”. Non è che sapessi esattamente in che cosa consistesse “dare il culo”. Ma avevo chiaro che era un qualcosa che qui e là suscitava reazioni di scherno. Non nel mio gruppo di amici, dove i valori negativi erano se facevi la spia oppure se fuggivi per non farti picchiare da bande rivali con forze preponderanti. Del resto ce ne fottevamo. E comunque era tale l’amore per il mio cantastorie che quel disprezzo ostentato dal campione di boccette rimbalzò su di me e gli ritornò tutto indietro investendolo in pieno. Fu una specie di imprinting, mi creò una memoria stabile sull’argomento specifico. Da allora ogni volta che qualcuno mi dice con o senza ghigno che il tale o il talaltro “danno il culo”, non posso fare a meno di disprezzarlo, quel qualcuno, e spesso non riesco neppure a nascondere il disprezzo. Cosa fastidiosa perché mi creo nemici anche quando con certe persone mi basterebbe semplicemente non avere rapporti. Insomma, quel cantastorie mi ha insegnato tante di quelle cose che forse neppure le so tutte. A tenere distanti i coglioni ignoranti e arroganti, per dirne una. A capire che nelle favole c’è il senso della vita, per dirne un’altra. Oppure che quando smetti di ridere di te stesso arriva il momento che gli altri ridono di te. E con tutte le ragioni. E che il teatro è la più bella di ogni favola e che ogni volta che un cantastorie sale sul palco, che sia quello del più grande teatro della più grande città o le quattro assi dei guitti di una sagra, quel cantastorie celebra il rito della vita. E senza fare troppa filosofia, soprattutto. Mi raccomando niente musi da professori. Perché… La moral signori e dame noi non facciam volutamente siamo sol povera gente che la storia volle raccontar.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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