RAZZISMO… (MA E’ UNA STORIA DIVERSA)
No, niente a che vedere con colore della pelle, etnia, religione o nazionalità! Devo parlare di altro: delle contraddizioni di parte di un popolo che si dice fiero di sé stesso e che esprime anche estremismi manifestati pubblicamente con adesivi con la scritta Sardigna no est Italia, e si dice sfruttato, colonizzato, represso. Ora, la storia di un popolo di questo genere è sempre legata ad una povertà pregressa, ad una forte emigrazione, spesso alla ricerca della sicurezza economica dell’impiego statale, che una volta era frequentemente rappresentata dall’arruolamento nelle forze armate. Mio padre è nato a Romana, comunità di qualche centinaio di abitanti separata dal resto mondo. Un paese con una chiesa, un negozietto di alimentari che vendeva pasta, pane e olio, la caserma dei carabinieri, e il cimitero. A Romana si nasceva in casa, e si moriva in pace. Nel mezzo, si sopravviveva, spesso sfidando la malaria e andando a dormire alle otto: tanto, che ci fai alzato se non c’è la corrente elettrica? La seconda guerra mondiale era stata una paradossale opportunità per alcuni, volontari della prima ora dell’Italia fascista con voglia di Impero, ché certamente uno stipendio sicuro lo danno a tutti e quindi anche a me. Quelli nati negli anni trenta avevano perso quell’occasione, ma l’Italia repubblicana aveva ancora bisogno di volontari per difendere i confini del nord-est e, se hai un fisico forte, è capace pure che ti mandino a fare l’Alpino, a te che avevi Monteleone Rocca Doria come esempio di cima irta e tempestosa. Mio padre partì appena poté; lo mandarono in Piemonte e poi in Alto Adige. Ovvio che le amicizie maschili fossero soprattutto quelle dei sardi costretti ad emigrare come lui, e poi quelle degli altri meridionali. Ma se uno in Alto Adige ci deve vivere, magari vuole anche farsi una famiglia e, allora, almeno le amicizie femminili devono essere le ragazze del posto, ma rigorosamente di lingua italiana, intendiamoci, ché il razzismo dei tedeschi è insopportabile e il sentirmi straniero in patria mi fa imbestialire. Mio padre e mia madre si sposarono a Bressanone nel 1962, e io fui il risultato di quella unione: l’Italia era fatta e ora si stavano facendo gli italiani. Quasi sei anni passati tra le montagne, poi altri nove tra Roma e dintorni. Ora, anche se tuo padre ha l’accento sardo, e tua madre quello altoatesino, e anche se tu stesso parlavi come i bolzanini, se poi, proprio mentre ti stai formando, vivi nelle borgate romane, il tuo accento diventa quello dell’ambiente che ti sta intorno. E allora, solo un purista capisce che sei un mezzo-sangue; per gli altri, sei un romano; anzi, uno sporco romano, di quelli che c’hanno i soldi, e pensano che tutto sia loro, mentre tu sei solo un servo. Nel 1978, quando arrivai a Sassari, mi ritrovai proprio in questa paradossale situazione. La mia classe del liceo era divisa in due: i “poveracci” e la “jet-society”: io li chiamavo così. Inutile dire che io ero tra i poveracci, di quelli che nemmeno chiedevano a mamma e papà di mandarli in gita a Barcellona, ché sapevo che magari mi ci avrebbero anche mandato ma con sacrifici che non mai avrebbero confessato. E quindi, io non glielo chiedevo. Così come non gli chiedevo nemmeno di comprarmi quel pennarello particolare per fare i disegni tecnici, quello che, se ce l’hai, il professore ti dà un punto in più. Alla mattina andavo a scuola, e almeno passavo il tempo. Al pomeriggio restavo a casa, io che ero abituato a uscire tutti i pomeriggi per giocare a pallone o andare in bicicletta con gli amici. Solo che ora i miei amici erano lontani, troppo lontani, e io mi sentivo in gabbia, in isolamento. Non che non avessi provato a integrarmi, ma non funzionava. In classe, la jet-society mi snobbava, quando andava bene. I più ricchi, quelli col Moncler, mi irridevano perché avevo il giubbotto comprato alla Standa e mi odiavano per il mio accento, soprattutto per il mio accento, visto che era quello che metteva in dubbio le loro certezze di essere i migliori. Qualunque cosa provassi a dire, la loro risposta era che qui le cose erano diverse, che non funzionavano come a Roma, che dovevo stare zitto. E allora non parlai più, non con loro almeno, ma li odiavo, soprattutto odiavo uno di loro. Avevo fatto il provino ed ero stato preso tra gli Allievi della Torres. Tra tutti ero il più veloce, ed ero un terzino alla Cabrini, sempre pronto ad attaccare; niente di eccezionale, ma promettevo bene. Ci sono andato per due mesi, finché non ce l’ho più fatta. Ero odiato da quasi tutti perché ero romano e – dicevano – tanto questo non mi sarebbe bastato per essere convocato dal mister. In pratica, avevo legato solo col mio compagno di palleggio; gli altri mi stavano alla larga. Dopo due mesi, dopo pranzo uscivo ancora di casa per andare ad allenarmi ma, in realtà non ci andavo. Aspettavo fuori per due ore e poi tornavo a casa. Non dicevo niente, non volevo dire niente. Un giorno camminavo per strada con un pallone che era finito sotto una macchina; non ho fatto altro che parlare col mio compagno di classe che era lì con me, niente di più. Ma dei ragazzi di almeno una decina d’anni più grandi mi hanno sentito e, mi chiedo ancora perché, ma forse è inutile che lo faccia, hanno preso una pinza e mi volevano colpire con quella. Mi dicevano che ero uno sporco romano, anche loro, come facevano tutti, o quasi. E di questi episodi ne ho vissuti per anni finché ho preso una decisione: dovevo mascherarmi, dovevo annullare il mio accento, eliminare la causa di tanto odio. Ho lavorato su me stesso, ci sono stato attento. All’inizio ci riuscivo solo quando ero perfettamente calmo. Poi, piano piano, anche nei momenti di ira o di concitazione. E così sono sopravvissuto. Una cosa, però, mi sono detto: modificherò il mio accento, lo renderò neutro, ma mai prenderò l’accento sardo, né questo né nessun altro. E così è stato: ora mi mimetizzo quasi sempre, anche se a volte trovo quelli che, a corto di argomenti, mi dicono di tornarmene a casa mia ché qui continentali non ne vogliamo. A questi non ho mai risposto, non ho mai detto che io sono mezzo sardo, e lo sono perché il problema dei sardi non è solo il loro ma lo è, lo è stato quello di mio padre prima di loro.
E quello di mio padre era molto peggio del loro.
In questa categoria sono riuniti una serie di autori che, pur non facendo parte della redazione di Sardegna blogger collaborano, inviandoci i loro pezzi, che trovate sia sotto questa voce che sotto le altre categorie. I contributi sono molti e tutti selezionati dalla redazione e gli autori sono tutti molto, ma molto bravi.
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