14 luglio, notte fonda. «Gay di merda, che cazzo guardi il mio fidanzato?». «Niente, ero sovrappensiero» risponde Luca, quarant’anni. Gli altri però, in sei in tutto tra cui due ragazze, linciano lui e il suo amico infierendo sul volto, sulle gambe, sulla schiena, usando persino delle catene. Luca riesce a liberarsi per tornare a casa e spiega alla fidanzata di essere stato massacrato perché li credevano omosessuali. Non sapeva di avere un ematoma cerebrale che dopo una settimana l’avrebbe mandato in coma.A leggerla così la notizia, qualcuno potrebbe pensare che si tratti di un episodio avvenuto in uno stato africano tra riti vudù e stupri a vergini infibulate. Invece no, ci troviamo nella stupenda Genova, città di don Gallo, Fabrizio de Andrè e Paolo Conte. Ma esattamente cosa sta accadendo al nostro paese e perché questa recrudescenza contro ogni forma di diversità, e nello specifico contro gli omosessuali, che porta persino dei sindaci a fare delle battaglie contro i libri gender, come il primo cittadino veneziano Luigi Brugnaro? Roghi, impiccagioni, deportazioni, confino, espulsione dal corpus sociale, accanimento psichiatrico: sono solo alcune delle espressioni, nella storia degli ultimi due millenni, della violenza contro le persone omosessuali. L’omofobia agisce sempre su diversi e più livelli e mai con la stessa intensità, come ogni razzismo, che in genere serve per manipolare le masse, per catalizzare il loro agire e offuscare l’incapacità della democrazia di garantire a ogni cittadino il rispetto dovuto. Nel primo livello, è proprio il tabù stesso dell’omosessualità a garantire l’oggetto di scherno, di violenza o di compassione: il gay fa paura perché mette in gioco il nostro ruolo sociale (di maschi). Nel secondo livello, l’omofobia diventa un razzismo indotto: il disagio del branco, della massa, si esprime nella ricerca di un capro espiatorio. Il branco però non è sempre consapevole del suo razzismo, ha solo la necessità di annientare l’altro, che individua come nemico (per esempio, nel bullismo). Nel terzo livello, l’omofobia agisce nelle istituzioni e diventa un termometro ideologico. Se Zapatero sfidò il paese cattolico che rappresentava, Putin inizia la sua persecuzione per garantirsi il potere in modo ancora più forte. L’omofobia quindi ha una sua necessità politica ben precisa. È appunto il sintomo o meno del livello democratico in un paese. Questi livelli, in ogni caso, s’intersecano, s’incrociano e si sovrappongono nell’azione sociale quotidiana. Vorrei allora proporvi una fenomenologia dell’omofobia, cercando nello stesso tempo di sviluppare alcuni elementi antropologici e dunque filosofici e politici Il termine omofobia – dall’unione delle parole greche omos (stesso, uguale) e fobos (timore, paura) – è generalmente attribuito allo psicologo americano George Weinberg che negli anni Settanta intendeva definire la paura che gli eterosessuali esprimono quando sono in presenza di persone omosessuali. Weinberg aggiungeva poi che tale avversione si riproduce anche negli omosessuali contro se stessi. La definizione mantiene il suo originale significato, ma negli ultimi trent’anni questo termine è stato utilizzato più appropriatamente dai movimenti di liberazione omosessuale con l’obiettivo di riflettere sulle ragioni che hanno portato alla persecuzione dei così detti «diversi». È emerso così che l’omofobia, espressa nei millenni attraverso tabù, leggi penali o divine, barzellette o termini medici (nomen atque omen!, diceva Plauto), non è una semplice critica a uno stile di vita non approvato, ma è un preciso dispositivo culturale che regolarizza il corpus sociale. In chiave preliminare spieghiamo l’iter attraverso il quale la Chiesa e i suoi adepti hanno iniziato a demonizzare la fantasmagorica ideologia gender. Nel 2003, il Pontificio consiglio per la famiglia pubblica una nuova e riveduta edizione del Lexicon col pretesto di chiarire, a tutti coloro che non riescono a farsi guidare, il reale contenuto di alcuni termini e il modo più corretto per il loro utilizzo. Esempio: interruzione volontaria della gravidanza o aborto terapeutico non sono altro, spiega l’introduzione del Lexicon, che un’evoluzione semantica fuorviante ed erronea del termine “infanticidio”; così come morte indotta o eutanasia nascondono, con subdola semplicità, il reale significato di “omicidio”. In realtà, si trattava di un semplice monito alle istituzioni politiche europee, sorde agli ordini funesti e intransigenti dei generali vaticani. Proprio per questo preciso motivo politico non manca la voce Omosessualità e omofobia, due termini che, ovviamente, sono per gli autori utilizzati dalla maggior parte delle persone a sproposito. L’omosessualità, afferma dunque il Lexicon, «è una fissazione acquisita della pulsione sessuale che la mantiene nella sua economia originaria ed esprime un fallimento dell’espressione edipica e una regressione a pulsioni e a fantasmi pregenitali». Su questo argomento tipicamente freudiano ruota tutta l’analisi psichica degli omosessuali che sono ritenuti, viene aggiunto, individui «che si adagiano spesso su un fondo depressivo, che può essere compensato da rivendicazioni narcisistiche, da un bisogno di presentarsi come vittime agli altri, della propria famiglia, della società». L’omosessuale insomma è il prodotto di un conflitto psichico irrisolto e per tale ragione non c’è nessun futuro individuale per chi è espressione di un’anomalia. Da questo punto di vista, chiunque cerchi di valorizzare questa «tendenza» sbaglia perché non ci può essere complementarietà tra i due partner. Per la chiesa dunque pensare che gli omosessuali siano persone da valorizzare significa esaltare quella che loro definiscono ideologia del gender. Ne consegue che l’accusa che gli omosessuali fanno alla società di essere la causa delle loro ansie e delle loro paure è pretestuosa e falsa: l’omosessuale utilizza in malafede l’omofobia per le proprie rivendicazioni, cercando di ingannare il potere politico. I testi omofobi dove queste deliranti teorie iniziano a emergere, e dove la Chiesa di Roma promuove l’omofobia come strumento necessario alla lotta contro ogni forma di libertà sessuale, risalgono al 1985, firmati quasi tutti da Joseph Raztinger, diventato poi pontefice, attraverso il libro-intervista Rapporto sulla Fede. Non c’è dubbio quindi che l’omofobia resta per la Chiesa un comportamento legittimo. Possiamo però affermare che le religioni litigano su ogni argomento, ma sono in perfetto accordo sulla questione omofoba. Per i tre monoteismi, e i loro integralismi derivati, gli omosessuali rappresentano l’espressione del più atroce dei peccati. Mappamondo e codici penali alla mano, ci accorgiamo subito che i paesi dove l’omosessualità è più perseguitata sono quasi esclusivamente islamici. Gay e lesbiche che vivono in nazioni in cui regna la ferocia della Sharia, e dove non c’è stato quel processo di secolarizzazione attivato dall’illuminismo, sono soggetti perfino alla pena di morte. Il continente africano è quello messo peggio, parola di Amnesty International. In Sudafrica, per esempio, è praticato lo “stupro correttivo”, una pratica aberrante dove una donna, quando è dichiaratamente lesbica, subisce una violenza carnale. Ne fece le spese, tra le molte ragazze, nel 2008 la calciatrice e militante Eudy Simelane. Tutto questo perché la parola chiave che unisce omofobia e religione è patriarcato, ovvero un modello sociale basato sul potere dei padri. Il maschio è colui che da sempre ha organizzato, ordinato, disciplinato il mondo. Egli è ordine in quanto norma, legge, potere, autorità. Il maschio separa dal kaos della materia (femmina) e produce il telos, lo skopos. Il maschio quando diventa padre tramanda al figlio il suo sapere, lo educa. Il suo è sempre un sapere verticale, che va verso il cielo, che rende possibile appunto un avvicinarsi al trascendente, un elevarsi. Il maschio inizia alla vita. Il maschio marchia la femmina, come moglie, come figlia, come oggetto di scambio tra famiglie. E la donna in questo meccanismo è completamente nullificata. Gli omofobi istituzionali dunque vedono in un mondo consegnato alle donne, dove il fallo non predomina, un processo di «svirilizzazione». E qui il fallo è qualcosa di fisico oltre che di simbolico, anzi è proprio fisico perché simbolico. Pensiamo ai clienti dei travestiti o delle transessuali: cercano la penetrazione passiva. Le donne col cazzo permettono di esercitare la sottomissione tipica del femminile, salvo poi diventare dominatori del mondo nella politica. D’altro canto, non so se avete mai notato, ma la metafora più diffusa al mondo è quella dell’inculata. Ovvero fottere, fregare, ingannare, essere più furbi mettendola nel culo all’altro. Fottere, spiega la professoressa Eva Cantarella, è il termine latino più diffuso in assoluto, durante l’Impero Romano. Basta d’altro canto osservare la nostra società attuale, anche se appunto secolarizzata: i leader politici sono ancora quasi esclusivamente uomini, i grandi filosofi del passato, gli artisti più celebri, i manager delle grandi industrie. Soprattutto sono maschili le gerarchie religiose: preti, cardinali, vescovi, rabbini, imam, yallatolah. Nelle religioni le donne sono tenute a distanza come ciò che inquina la sacralità dell’agire fallico maschile, unico soggetto in grado di relazionarsi col sacro. Come dire che la funzione sessuale e il potere coincidono o, per rubarla a Foucault, potere e sessualità sono isomorfici. Il maschio ha il potere perché possiede il pene, la donna no. Anche perché il ruolo del maschio (del padre) non è altro che il ruolo di Dio (padre dei padri). Dio dunque è maschio poiché è detentore del pene. Dio è un grosso cazzo simbolico. Potere = maschio = cazzo = Dio Chi è allora un omosessuale? È un soggetto eversivo che tradisce questa impalcatura socio–antropologica del potere. Egli nega questa metafisica fallo-logo-centrica delle religioni perché chiunque slitti sul genere prestabilito dal disegno teologico nega il potere di Dio, la potenza del suo grande fallo, l’ordine che Egli ha dato al mondo. E in Italia, coincidendo il potere politico con quello religioso (perché di fatto siamo in una dittatura religiosa), l’omosessuale non può che essere ancora tabuizzato. D’altro canto il tabù, spiega Sigmund Freud in Totem e Tabù, significa divieto. È tabù la caratteristica o proprietà di una persona che travalica la normalità o il concetto di sacro, qualcosa di pericoloso, impuro, di perturbante. Ma come genera orrore è anche fonte di venerazione, e quindi il tabù oscilla su una coppia di opposti dove da un lato c’è qualcosa di assolutamente vietato, dall’altro quella cosa proibita è anche venerata perché sacra e quindi inconsciamente desiderata (ovvero il grande fallo divino) e colui che infrange il tabù, ne è anche contagiato. La disobbedienza di questo tabù produce un effetto a catena e questo «vizio» si diffonde come un’epidemia. Socialmente chi infrange un tabù deve essere punito: esso costituisce un esempio che conduce i membri di una società a trasgredire quel tabù. Se IO sono malato, devo sapermi isolare e negarmi e per fare questo accuso gli altri di ciò che non posso vivere. Per esempio, la Chiesa non è si è mai preoccupata degli abusi dei preti pedofili, ma degli scandali che ne sarebbero conseguiti. Sono quelli che determinano una perdita di potere. Berlusconi, il trans per eccellenza, ne è la prova provata. E Bellocchio, ne L’ora di religione, aveva perfettamente ragione: se vuoi un meccanismo di potere che funzioni, devi usare la colpa come meccanismo di repressione, mica lo Stato di diritto! II tabù dell’omosessualità dunque è alla base, al pari del disprezzo nei confronti delle donne, della costruzione teologica del divino e della gerarchia delle religioni stesse anche nei paesi apparentemente laici. Nel secolo scorso, il discorso sull’omosessualità ha però preso corpo in ogni disciplina occidentale (antropologia, psicoanalisi, sociologia, eccetera), affrontando il tema scabroso che gli s’imponeva, e ha indicato una risposta al problema stesso. Ma indicando il problema (perché l’omosessualità?) ha anche posto in essere l’omofobia in quanto «sintomo» che genera stupore, sdegno, interesse, riprovazione e che va in ogni modo emendato. C’è però un topos preciso dove è accaduto questo passaggio definitivo: la filosofia greco-platonica, dove viene sancita la corrispondenza tra «natura» e «legge». Nel dialogo Le leggi, testamento politico di Platone, viene promulgata una volta per tutte la differenza dei generi e i ruoli sociali a cui appartengono i sessi. Il filosofo ateniese stabilisce anche ciò che è lecito e ciò che non lo è, disponendo di uno schema (una metafisica) in cui ci sono dei rapporti secondo natura (kata physin) e altri contro natura (para physin). In questa metafisica, l’ordine legale che nomina le cose assorbe completamente l’ordine naturale, anzi, la natura esiste in quanto nominata dalla legge che infatti ne descrive e in-scrive il significato. L’ordine legale diventa così quello naturale. Ne consegue che sarà illegittima la dispersione dello sperma in un rapporto irregolare con le concubine o nei rapporti infecondi con gli altri uomini (rapporti contro natura). L’omosessualità, termine neppure presente nella lingua platonica, assume allora la connotazione di rapporto irregolare in quanto non fecondo, non riproduttivo. L’operazione è ben più radicale di una semplice espressione di omofobia: essa la fonda. Inscrivendo la sessualità in una nomenclatura legislativa (che fa coincidere sesso, genere e orientamento) di rapporti riproduttivi e non riproduttivi, in uno spazio sociale diviso in «femminile» e «maschile», fa in modo che l’omosessuale, espressione di una sessualità finalizzata solo al piacere, non riproduttiva, viene catapultato fuori dal contesto legislativo: se la legge ha stabilito che naturale è un rapporto riproduttivo, l’omosessuale andrà automaticamente contro la legge, e per tanto «contro natura». L’occidente ha assorbito su di sé quest’ordine metafisico e l’ha riproposto senza mai metterlo più in discussione e quando incontrò il cristianesimo, ci andò, per così dire a nozze: dagli al frocio! Questo ha portato l’omosessuale a essere anche il più rivoluzionario dei rivoluzionari e dunque il più perseguitato. Ha ragione l’ex pontefice Benedetto XVI quando diceva che è “destabilizzante”: non c’è niente di più eversiva di una checca! Anche con le scarpette rosse.
Ma ora ci manca l’ultimo passaggio. L’omofobia si può esprimere in due modi: esternamente all’omosessuale, come rifiuto della società; interiormente, come rifiuto di se stessi. L’omosessuale, cresciuto in un tessuto che l’ha negato, una cultura alle cui radici c’è il tabù dell’omosessualità, come uno degli elementi costitutivi, non ha potuto che interiorizzare, nel suo processo formativo, l’odio che la società ha per gli omosessuali e l’ha trasformato in odio per se stesso. Se tutti, fin dalla mia infanzia (genitori, parenti, compagni di scuola, professori, amici, mass-media, eccetera) continuano a ripetere che l’omosessuale è un errore della natura, IO introietterò l’idea che sono sbagliato, che sono un pervertito, che IO sono ciò che di peggio c’è di sbagliato, interiorizzando ciò che l’ambiente suggerisce, penserò di me quello che scrisse Dario Bellezza: IO sono un vomito di Dio. Ma come agisce l’omofobia sull’omosessuale? Qual è la conseguenza dello stigma interiorizzato? Ce lo spiega il più grande poeta del Novecento, Pier Paolo Pasolini e una sua poesia: Supplica a mia madre. Pier Paolo Pasolini resta la bestia nera per tutti gli omosessuali, è impossibile negarlo. La sua vita, i suoi processi, in cui mai fu pronunciata la parola “omosessuale” ma che era il contenuto ideologico di ogni singola accusa, la sua morte tragica, hanno messo sempre gli altri omosessuali in difficoltà. Pasolini visse tragicamente la propria condizione e morì ancora peggio in un teatro mediatico che riuscì a costruire un’impalcatura omofoba di grande solidità ideologica. Supplica a mia madre è straordinaria nella sua semplicità e immediatezza, come tutta l’opera poetica civile di Pasolini. Il poeta però consegna il lettore, evidentemente suo malgrado, già dai primi versi, a una sentita autoflagellazione: rivolgendosi alla madre, dichiara la sua incapacità di definirsi un vero figlio. Sente di aver tradito tutte le aspettative di un genitore. Questo amore, questa identificazione tra la madre e l’anima, determina anche il binomio madre/angoscia, e pertanto la lacerazione profonda a cui è soggetto in qualità di individuo in sé. Seguono alcuni versi in cui Pasolini sostanzialmente descrive quello che non è altro che un forte senso di colpa, traccia questa che si può ritrovare anche in altri testi, sia di narrativa che cinematografici. Supplica dunque la madre di non abbandonarlo attraverso la morte. Soffermiamoci solo su due versi in particolare: E non voglio essere solo. Ho un’infinita fame/ d’amore, dell’amore di corpi senza anima. Pasolini si sente solo, afferma di avere una fame incredibile d’amore, ma identificando l’anima con la madre, ciò che cerca, di cui ha fame e di cui evidentemente si nutre come un vampiro, sono solo corpi senza anima. Ecco il centro della sessualità, coatta e orribile, di Pier Paolo Pasolini: i suoi ragazzi di vita, descritti e studiati nelle sue opere, a cui dedica romanzi, trattatelli di pedagogia, liriche, film, sono anche quei poveri che pagava, abbacinandoli con una macchina costosa – lui, marxista che accusava gli intellettuali italiani di essere degli ipocriti, che per altro è vero – e che ogni ragazzo di borgata senza nulla sogna, perché già allora, bombardato da valori consumistici – che Pasolini, ancora una volta, combatteva – sono corpi a cui non dà neppure un’anima, ma solo soldi dopo averli consumati. Pasolini li usa, li getta e scappa, lontano da se stesso, lontano da quell’IO che gli fa schifo, che rifiuta, che odia sopra ogni altra cosa, come capita ancora oggi, a molti omosessuali. Uomini dalla doppia identità (preti, onorevoli, dirigenti), che di giorno hanno la maschera dei censori ma che di notte invece cercano corpi senza nome, senza volto, corpi che desiderano altri fantasmi che non possono essere identificati e identificare. Uomini dall’identità schizofrenica. La sessualità di Pasolini, come quella di Bellezza (e dell’eterosessuale Marrazzo), ruota attorno a queste tre parola: corpi senza anima. Così come quella di un altro scrittore, Giovanni Testori: sono una sintesi di auto riprovazione. Cioè di una sessualità per negazione, si annientano in quando la società non li accetta, e dunque usano i corpi che sono svuotati di senso, perché quel significato mette in luce la loro cattiva fede, direbbe Sartre de L’Essere e il nulla. Per quanto riguarda invece personaggi quali Alfonso Signorini, Lele Mora o Dolce & Gabbana, essi si comportano piuttosto come dei capò di un meccanismo di potere di cui fanno già parte e che rispettano. Non si sono annientati come esseri umani, immolandosi nell’arte o nel delirio personale, nella propria sofferenza, per comparire nel consorzio umano senza esservi come soggetti, ma pur sempre nella lotta carnale dello spazio/tempo. Si sono conglobati nell’Impero che tutto fagocita e tutto rappresenta. Sono collaborazionisti avrebbe detto Malaparte, complici di quel sistema che alimenta il disvalore che la società ha elaborato su di loro e si sono acquietati nel trend produttivo che mantiene forte chi detiene il potere, che è sempre religioso, perché sacralizzante il corpo, anche quando è politico. Si potrebbero definire eunuchi redivivi. Forse è per questa ragione allora che oggi le lesbiche, gli omosessuali, i/le trans che trovate nelle piazze o che fanno coming out sono sempre più spesso affiancate da famiglie vilipese quotidianamente da una politica menzognera, donne nascoste e violate, disoccupati, precari, pensionati.
Rivendicare l’autodeterminazione del corpo è un esercizio di civiltà.
In questa categoria sono riuniti una serie di autori che, pur non facendo parte della redazione di Sardegna blogger collaborano, inviandoci i loro pezzi, che trovate sia sotto questa voce che sotto le altre categorie. I contributi sono molti e tutti selezionati dalla redazione e gli autori sono tutti molto, ma molto bravi.
Renatino e i misteri di Roma (di Giampaolo Cassitta)
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