“Ma lo sai che D’Alema ha mandato affanculo il giornalista? Non per modo di dire, l’ha proprio mandato affanculo”. Sarà stato il 1998 e ancora lavoravo a Porto Cervo. Il collega testimone auricolare del fatto venne apposta a riferirmelo, con gli occhi sbarrati di uno che avesse assistito ad un brutto incidente stradale. Mi è tornato in mente l’episodio perché oggi, per caso, ho visto il video di un furibondo scontro tra D’Alema e una giornalista, risalente a qualche settimana fa. Io, che già subivo il fascino del personaggio Massimo D’Alema, da quel giorno del 1998 presi decisamente a stimarlo. Non si dovrebbe mai ammettere la propria simpatia per D’Alema, se uno ci tiene alla sua immagine pubblica: è come se uno, trent’anni fa, avesse ammesso di stimare Andreotti, notoriamente colpevole di ogni misfatto (spero si capisca l’ironia). Invece a me D’Alema è sempre piaciuto. Perché è sì oggettivamente antipatico, ma a me è anche sempre sembrato uno che non recita, che non finge di essere un altro per inseguire il consenso. Il politico che orienta le sue parole per inseguire il consenso, che dice solo quel che la gente vuole sentire, ecco, quello per me è Belzebù, molto più di Andreotti. Credo che l’ossessione del consenso sia la malattia terminale della politica. Quel pomeriggio, a Porto Cervo, D’Alema c’era arrivato sulla sua barca a vela Ikarus. Era stanco dalla navigazione, forse di cattivo umore, quando un collaboratore di un quotidiano locale cercò di strappargli una dichiarazione riguardo a non so quale tema dell’attualità politica. Fu molto insistente. E venne mandato a quel paese. Baffino avrebbe potuto bofonchiare una frase di circostanza, fare fesso e contento l’intervistatore, dissimulare per salvare l’apparenza. Tra l’altro D’Alema era in una posizione scomoda, quasi con le spalle al muro: un ex comunista, in quel momento leader del principale partito della sinistra italiana, sbarcava nella mondanissima Costa Smeralda su uno yacht privato, con tutte le inevitabili ironie e accuse indirizzategli da avversari e amici politici. Certo, lui lo faceva per dimostrare il nuovo corso liberal della sua area politica, ma la possibilità che quella scelta audace e disinvolta potesse divenire un boomerang era molto alta. “Dì qualcosa di sinistra!”, lo implorava Nanni Moretti, mentre Giampaolo Pansa, su L’Espresso, coniava l’espressione “Dalemoni”, così indicando la mostruosa creatura nata dalla fusione tra D’Alema e Berlusconi, da cui era nata l’inutile Bicamerale per la riforma della Costituzione (ricordiamo che oggi Pansa è un maître à penser della stampa di destra). D’Alema aveva capito prima di noi che con l’Italia di Berlusconi bisogna parlarci e che tutti noi eravamo degli illusi a pestare i piedi, come bambini capricciosi, per rifiutare ogni contatto. Quel mondo, nel frattempo, ci è esploso in mano. E però, per quanto mi riguarda, io non ho mai visto Berlusconi annichilito, nell’uno contro uno delle tribune politiche, come in occasione di un confronto con D’Alema. Tra i leader postcomunisti italiani, io non ne ho ancora visto uno capace di argomentare e calibrare le parole come riesce a lui.
Il giornalista, a Porto Cervo, voleva strappargli una battuta, ma a D’Alema non gliene importava. Lui non aveva nulla da dire, era in vacanza e non voleva essere infastidito. E reagì come una persona normale, con lo scatto di rabbia dell’uomo della strada. Per qualcuno potrà essere l’arroganza del potere, forse lo è. Magari è anche la sua smisurata considerazione di sé a fargli ritenere di poter dire sempre quel che gli passa per la testa, non so. Ma a me quella e tante altre reazioni di D’Alema sono sempre sembrate manifestazioni di un uomo autentico, benché non esattamente simpatico. Quando ha provato a fare il simpatico, tipo cucinando i risotti da Vespa, si vedeva che non era a suo agio. Forse in quella brusca risposta, in quel pomeriggio d’estate di quasi vent’anni fa, giocò un ruolo il cattivo rapporto tra lui e la stampa. A D’Alema, che è stato anche giornalista, non credo piacciano granché i giornalisti. E io, da giornalista, lo capisco, perché capisco il perché non gli piacciano. Non è perché abbia in odio la libertà di stampa, come chi lo odia sostiene. Lui, quando ha qualcosa da dire, scrive un libro o va dalla Gruber, oppure interviene ad un dibattito. Ogni parola, nel suo ragionamento, sembra avere un’alba e un tramonto, una logica precisa, un ruolo, ogni parola è il risultato di una meditazione. Dicevano che aveva una passione per i computer, quando i computer erano ancora uno strumento per pochi: nei computer c’è una logica cartesiana, ineludibile, e tutto ha un senso essenziale. I giornali invece procedono troppo spesso per luoghi comuni, azzardano analisi affrettate, devono strillare titoli che non hanno quasi nulla a che vedere col reale contenuto degli articoli e con la sostanza dei fatti, non hanno il tempo di fermarsi ad approfondire perché ogni giorno, a quell’ora, devono andare in stampa. Credo che D’Alema questo non lo sopporti e non lo nasconde, a costo di essere impopolare. Così come è impopolare scrivere un post in cui l’autore confessa di avere non solo stima, ma pure simpatia per D’Alema.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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