“Ieri si sono celebrate le nozze del camerata dott. Pasquale Filigheddu, attualmente alle armi come capomanipolo medico in un battaglione d’assalto, e della signorina dott. Maria Cesaraccio. Semplice e raccolta cerimonia…”. E così, mentre stamane in biblioteca sfogliavo una filza dell’Isola, mi sono sentito attirare come in un pozzo da un gorgo di storia su cui facevo asettiche ricerche. Quelli non sono comuni attori di un vecchio documentario in bianco e nero, quelli sono babbo e mamma. E’ un bell’articolo, lungo, un piccolo evento cittadino ben raccontato, ma la verità è soltanto nelle ultime righe: “Al camerata Filigheddu, che si appresta a raggiungere nuovamente il suo posto in zona di operazioni, e alla sua gentile compagna giungano le nostre più fervide espressioni…”.
Babbo e mamma non hanno mai parlato di questa cortese cronaca delle loro nozze nella chiesa di Santa Caterina, secondo la mia sorella più grande ne ignoravano addirittura l’esistenza essendo partiti il giorno stesso a Tempio per il loro lussuoso ed esotico viaggio di nozze. A me sembra impossibile. Probabilmente non avevano conservato il ritaglio e non ce ne avevano mai parlato perché l’umore leggero e gioioso descritto dall’Isola strideva con quello reale. Babbo pensava che subito dopo il suo ritorno al fronte greco sarebbe morto e mamma aveva la stessa convinzione. Erano nozze di guerra. La guerra che entrava nelle famiglie, negli amori e negli umori, nelle speranze e nelle più frequenti disperazioni, era questa. Ma quelli che la esaltano ancora oggi sotto forma di elogio a ogni tipo di violenza e sopraffazione, non lo sanno.
Babbo aveva ottenuto una miracolosa licenza matrimoniale e aveva trovato un’altrettanto miracolosa serie di imbarchi dalla Grecia sino alla Sardegna. Era malvisto dal suo comandante, il quale era una sorta di sicario del regime, come ce n’erano tanti tra i militari; uno che, caduto il Fascismo, fu a lungo ricercato, e mai catturato, come criminale di guerra. Babbo mi raccontò che una volta, durante la latitanza di questi, lo vide alla stazione di Genova:
“Mi guardò con gli stessi occhi di assassino di quando ero un suo sottoposto, avrei potuto fare un cenno a una coppia di carabinieri che passava sulla banchina e farlo arrestare, ma rimasi paralizzato, temetti quegli occhi come se ancora fosse un uomo dotato del potere di uccidermi e non un fuggiasco”.
Babbo non era un antifascista, ma la guerra fatta al fronte, meritando persino riconoscimenti al valore, gli aveva fatto capire molte cose. Me ne parlò negli anni Novanta qualche tempo prima di morire, quando aveva già perso quel pudore o quell’esplicita voglia di nascondere la verità per la quale ci aveva fatto apparire la sua guerra come una teoria di aneddoti. Pure se, già da allora, se volevi capire, capivi. A esempio non bisogna essere laureati in psicologia per indovinare che il divieto assoluto che da bambino mi imponeva di usare qualsiasi giocattolo a forma di pistola o di fucile era un frutto di quella guerra.
Mi parlò, in quei giorni prima di morire, di un sacerdote ortodosso con il quale faceva lunghe chiacchierate ucciso dai suoi camerati italiani con una sventagliata di mitra sotto i suoi occhi mentre lui era ancora al suo fianco dopo averlo salutato. Tante cose mi raccontò. A esempio che se come medico militare non facevi da bravo quando ti ordinavano di assistere agli interrogatori dei partigiani greci presi prigionieri rischiavi di fare la stessa fine. E a babbo era già capitato di non fare da bravo, cioè di attestare falsamente come medico che il prigioniero non era assolutamente in grado di sopportare altre torture restando in vita. Io ero un più che quarantenne che di suo padre sino a quel momento non sapeva neppure che avesse avuto un attestato per il valore mostrato “esponendosi al fuoco nemico per portare in salvo i nostri feriti”. Me lo consegnò, quell’attestato, la relativa medaglia l’aveva persa. E lo conservo ancora. Ma non portò in salvo soltanto i suoi camerati. Una notte curò anche un ragazzo greco bucato da una pallottola italiana o tedesca. Lo aveva chiamato di notte una donna dicendogli che suo figlio si era ferito con la zappa. Lui andò e quando si accorse di che cosa si trattava e che quello era un partigiano decise di rispettare il giuramento di Ippocrate. Non aveva anestetico e il ferito si lamentava: “Giatrè mou, giatrè mou”, dottore mio, dottore mio. Babbo capiva e parlava il greco correntemente, ma quella notte, attento più a estrarre la pallottola che ai vocativi e ai possessivi, gli rispose: “Trema, trema, però zitto, che se i miei ci sentono, ci ammazzano tutti e due”. Ammirava i partigiani greci. E questo lo diceva anche nel periodo precedente alle sue rivelazioni di fine vita:
-Che fossero comunisti o monarchici morivano davanti al plotone gridando kali patrida.
Ecco, la convinzione di babbo e di mamma era che qualche mese dopo la “semplice e raccolta cerimonia” il camerata dottor Pasquale Filigheddu sarebbe morto non si sa se ucciso dai nemici o da fuoco amico. Era la primavera del 1943. Accadde che in attesa di trovare un imbarco per il fronte greco babbo fosse mandato a un battaglione di stanza a Florinas. Poi arrivarono il 25 luglio e l’8 settembre. E babbo smise di fare la guerra ai greci e cominciò, da medico condotto, a farla alla malaria, aiutato in questo dal DDT del quale con lui non si poteva parlare male dicendo di prodotti cancerogeni o roba del genere. Non ti ascoltava nemmeno. Rispondeva:
-Prima del DDT per i morti non si piangeva, erano la normalità. Dopo il DDT almeno abbiamo imparato a piangere.
Che era tutto un giro di parole per non mandarti semplicemente affanculo visto che quando faceva questi discorsi era di solito presente la sposa di guerra che assentiva con un sorrisino tutto sassarese che ti faceva capire che il “vaffanculo” rivolto al figlio antiamericano però lo aveva capito.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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