Come Michela Murgia in campagna elettorale, anche Renato Soru ha pensato ai tavoli tematici per il conclave di Sanluri. Prego, accomodatevi. Qui si parla di trasporti, qua di agricoltura, nella stanza a fianco ci sono gli enti locali e a sinistra il bilancio. Bello. Peccato che, a confrontarsi, siano sempre i soliti noti. Chez Murgia, se non altro, offriva un confronto aperto a tutti.
Non credo ci si debba aspettare chissà quale rivoluzione copernicana da un meeting in cui le tensioni tra l’europarlamentare-segretario e il team di professori guidati da Francesco Pigliaru hanno giocato un ruolo non secondario. Diciamo che Soru ha scelto, per ora, di fornire un segnale di cooperazione, anche se in una bella fetta del suo partito c’è una voglia matta di rimpasto neanche troppo celata. Soru stesso guarda Pigliaru con gli stessi occhi con cui Renzi guardava Letta junior, anche se, per sua (renatiana) disdetta, l’ordinamento non gli consente nemmeno di pensare al clamoroso blitz che ha portato il segretario nazionale del Pd a prendersi la poltrona di primo ministro senza passare dalle urne.
Cosa ha realmente prodotto, dunque, l’incontro di Sanluri? Di solito, quando si discute qualcosa di importante, il verdetto viene comunicato. Qui, invece, dalle porte chiuse delle varie stanze non è uscito uno straccio di notizia interessante. Pare, ad esempio, che la riforma degli enti locali resti la pagliacciata che è. Il nodo cruciale dei trasporti marittimi in monopolio rimane insoluto. La questione delle entrate con lo Stato è più confusa di quanto già non fosse. Al netto di quella “ritrovata armonia” sancita a fine lavori dal segretario regionale, che sa tanto di dichiarazione di circostanza, non sembra ci siano novità rilevanti da segnalare. Se poi, nelle prossime ore, venisse fuori il contrario di ciò che affermo, cioè una bella agenda sulle cose da fare per rilanciare l’azione politica e la Sardegna intera, cioè quello che ci si aspetta da una coalizione che ha avuto il mandato di tirarci fuori dalle secche, sarei contento di essermi sbagliato.
In ultima analisi, a me sembra che questa nostra classe politica continui a crogiolarsi nel solito stagno delle poltrone da spartire, della fettina elettorale da accontentare, dei vuoti slogan da campagna elettorale e dell’incapacità di affrontare con decisione temi storicamente pesanti che, negli ultimi anni, si sono ingigantiti ulteriormente, fino a divenire soffocanti. C’è, ad esempio, una ricerca condotta da due esperti dell’Università di Cagliari che ci dice quanto ci costa, in soldoni, l’insularità, almeno in termini di trasporti, trasformando in chilometri le miglia marine. A parità di distanza da coprire, rispetto a qualsiasi altra regione italiana, spendiamo la bellezza di 660 milioni di euro in più ogni anno. Forse, più che alla vertenza entrate, bisognerebbe dare un’occhiata alla vertenza uscite. E cominciare a chiedersi se davvero valga la pena continuare a fare la parte dei fratellastri d’Italia. Quelli dall’altra parte del mare, quelli che si lamentano in continuazione, quelli che tanto non fanno sul serio, quelli che basta un rimpasto per farli felici. Quelli che parlano parlano ma, alla fine, portano a casa il solito pugno di mosche. Quando va bene.
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