Il 29 agosto del 1862 Garibaldi venne ferito sull’Aspromonte dal piombo del re che lui aveva messo sul trono. I Savoia se ne intendevano di tradimenti. Con la gamba bucata, nella capanna di un pastore, prigioniero dei piemontesi, che chiamarli italiani veniva male, pensava a due anni prima, ai Mille. E i pensieri correvano ancora più indietro, sino ai giorni che lui ogni giorno avrebbe voluto rivivere: quelli del ’49, della Repubblica Romana, con Anita al fianco. Già, Anita, morta di malaria durante la fuga. Dovette abbandonarne il corpo sotto pochi centimetri di sabbia per non farsi prendere. La propaganda papalina inventò che lui l’aveva fatta strozzare perché così, febbricitante, non poteva portarsela dietro. E un medico legale aveva persino avvallato questa infamia. Garibaldi in quella capanna di Calabria scivolò nel sonno. E i pensieri divennero sogni… Il medico legale di Anita Garibaldi tornava a casa dopo una giornata faticosa nella Chirurgia dell’ospedale di Ravenna. Faceva caldo, anche nel buio della sera. Un agosto come quello dieci anni prima, quando i banditi di Garibaldi si aggiravano a Comacchio, e il professor Luigi era stato tirato per i capelli nella storiaccia della perizia sul corpo di quella Anita, la moglie del capo della banda. “Moglie, poi!”, pensò con una smorfia il professor Luigi, mentre saliva col fiato grosso le scale verso l’appartamentino dove viveva solo. La sua, di moglie, se n’era fuggita. Gli avevano detto che si era rifatta una vita in America. “Proprio da dove veniva quella specie di moglie del bandito – si disse il professor Luigi, mentre infilava la chiave – Altro che moglie, concubina sarà stata, gente senza Dio…”. Si raggelò, la grossa chiave gli cadde con fracasso sulle travi del pavimento e lui la raggiunse ginocchioni. Anita, altera, gli veniva incontro dal buio della stanza. Si spostava senza muovere le gambe, lenta, come se non toccasse terra, senza uno scricchiolìo del vecchio pavimento, e si arrestò appena in tempo per non calpestare il rivoletto di urina. Il professor Luigi riuscì soltanto a pensare: “La porta…” e si volse a cercare la salvezza. Fu allora che lo vide, immobile a sbarrare la soglia, gli stivali puliti, il poncho, la barba ben curata, il cappello e quella voce terribile che trascinava a vincere o a morire e che gli disse -Non si muova, professore, non parli. Stia a sentirla e risponda solo se viene interrogato. Lei aveva un timbro rauco, un indefinito accento di terre lontane, parlava senza rabbia, decisa come un giudice che volesse sapere prima di decidere -Perché hai detto che il mio uomo mi ha fatto strozzare, perché hai mentito? Il medico legale restò in silenzio, fino a quando lui non lo toccò lieve e minaccioso con la punta dello stivale. -Un errore – balbettò – Poi ho ammesso di essermi sbagliato. Anita parlava senza guardarlo -Non è stato un errore, medico. Dimmi ora perché hai mentito o non lo potrai più dire neanche al padreterno perché ti porto con me all’inferno. Il professor Luigi sentì che doveva dire la verità, l’unico modo di raggiungere quel paradiso che gli spettava per la sua vita timorata e infelice solo per colpa di quelle puttane di donne nelle quali si era imbattuto. E piagnucolò -E’ stato quel funzionario dello Stato. Così mi ha detto, ma parlava come un prete… veniva da Roma. Disse che dovevo calunniare la tua memoria, che era mio dovere di cristiano, che il tuo esempio di donna libera, uguale a tuo marito, con le stesse passioni e gli stessi diritti, era più pericoloso persino delle imprese di… del… E si volse a sogguardare timoroso l’uomo che torreggiava silenzioso sulla soglia. Poi sentì un dolore atroce al ventre che risalì lungo il petto, sino alle spalle. Tentò di respirare e cadde con la faccia sul rivolo che al caldo del sottotetto cominciava a seccarsi. -Sembra morto- disse lui scuotendo il corpo con lo stivale. -Stecchito- confermò lei. -Di paura – aggiunse lui. -Meglio, fatica risparmiata- commentò poi staccandosi la barba finta e riponendo il coltellaccio che per tutto il tempo aveva tenuto nascosto dietro la schiena. Scesero calmi le scale e lui le chiese -Eppure ancora non capisco perché ci tenevi così tanto a fargli la pelle. -Lo dovevamo a quei due: a quella morta e a quello vivo. Da quando siamo fuggiti da Roma campiamo recitando la loro storia in tutti i teatri. Prima eravamo due saltimbanchi; dopo che li abbiamo conosciuti sulle barricate siamo diventati attori veri. Con quel tuo poncho e quella barba stiamo facendo più soldi di un vescovo. Lui assentì in silenzio, le cinse le spalle e mentre si allontanavano a passo svelto nelle vie deserte, si battè la mano sulla fronte -A proposito, bisognerà mandargliene un po’ di quei soldi, si dice che stia organizzando qualcosa al Sud, una spedizione in Sicilia… Garibaldi si risvegliò bruscamente e il sogno gli rimase appiccicato in tutti i particolari. Sorrise massaggiandosi la gamba offesa e si disse -Bisogna che chieda notizie di quei due attori di Roma, chissà che fine hanno fatto. E anche di quel medico devo chiedere notizie.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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