S’iscravamentu, deposizione di Cristo dalla croce, ai tempi di Don C., prete di un paesino del nuorese, e che officiava in lingua sarda.
Avendo abitato, molto tempo fa e per alcuni anni in quella località, mi assicurarono sulla autenticità di quel che accadde quel venerdi santo e su tanti altri aneddoti e amenità del prelato in questione. Tra l’altro veniva descritto dotato di straordinaria forza fisica, nonchè esperto esorcista e proprio in questa sua specialità, per scacciare il demonio, oltre alle rituali litanie, professioni di fede, gesti epicletici e acqua santa, lui, spesso, includeva il ricorso a “s’istrumpa”, una lotta molto fisica in cui vince chi mette spalle a terra l’avversario. Insomma, che a prevalere nella “gherra” fosse il demonio o don C. il malcapitato non aveva scampo, ne usciva malconcio, in un modo o nell’altro.
Tra i coloriti aneddoti che mi vennero raccontati di quel prete, c’era anche quello legato alla tradizione di questo giorno, “su Scravamentu”, tuttora in uso in quasi tutti i centri dell’isola. Era agli inizi degli anni ‘50, durante il rito del venerdi santo, in cui il Cristo, levati chiodi e corona dalla croce e deposta la statua lignea, don C., con la sua voce fortemente nasale, rivolto ai fedeli che gremivano la chiesa, pronunciò, solenne, la formula: “Hèminas cianghide, Zesus’è mortu” (donne piangete, Gesù è morto). Sulla navata, in prima fila, stazionavano le prefiche rigorosamente avvolte in scialli neri che, a quel segnale si abbandonarono a un pianto irrefrenabile e lacerante: chi percuotendosi il petto, chi inginocchiata e implorante, altre strappandosi i capelli, tra inconsolabili singulti. La circostanza, per loro, era anche occasione pubblicitaria, di autopromozione della propria arte di commiserazione dei defunti, si diceva pure ben remunerate dalle famiglie che ricorrevano a loro per dire bene dei loro defunto prima della tumulazione. Specialmente di quei defunti morti ammazzati, che nella recita dello strazio, riuscivano a trasformare delinquenti comuni, abigeatari, latitanti e assassini, in persone perbene e di animo nobile, e nei casi proprio indifendibili, vittime del destino avverso. Per questo quella esibizione rispondeva anche a una regola di mercato e non esibizionismo soltanto. Perciò il loro dolore atroce e inconsolabile non si attenuava, anzi, quella volta la forma e la durata erano divenute parossistiche, quasi uno stato di trance agonistico. Il prete a quel punto, visibilmente contrariato per quella violazione dei tempi stabiliti, si voltò verso le prefiche e con discrezione, quasi sottovoce, le invitò a cessare la dolorosa recita: “za bastada” (può bastare così); ma quelle non lo sentivano neppure; quindi dopo un po’ si voltò una seconda volta e con voce un po’ alterata ripeté: “apo narau chi za bàstada” (ho detto che basta così). Ma quelle niente, non davano segni di cedimento. A quel punto, spazientito per il perdurare di quelle performance e rimaste inascoltate le sue invocazioni, scese dall’altare dirigendosi lesto, quasi di corsa, verso le prefiche, paonazzo in volto e con voce roca dalla rabbia e l’indice minaccioso, le apostrofò dicendo: “mudas macas, ca si suponet chi no sia mancu beru” (zitte sceme che si presume, persino, che il fatto non sia vero).
In questa categoria sono riuniti una serie di autori che, pur non facendo parte della redazione di Sardegna blogger collaborano, inviandoci i loro pezzi, che trovate sia sotto questa voce che sotto le altre categorie. I contributi sono molti e tutti selezionati dalla redazione e gli autori sono tutti molto, ma molto bravi.
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