di Fiorenzo Caterini
Il drammatico fatto di sangue di Orune, con l’uccisione di un bravo ragazzo di soli 19 anni, ha suscitato sconcerto nell’opinione pubblica. Le riflessioni delle ore seguenti non potevano esimersi dal ragionare sullo stato attuale dei paesi caldi dell’interno, da anni protagonisti di tragici fatti di cronaca, legati, soprattutto, al tradizionale mondo agropastorale.
Sono stati evocati fenomeni sociali e antropologici che, in queste circostanze, sembrano immancabili, come la balentia, la vendetta (con riferimento alla nota teoria di fine anni ’60 di Antonio Pigliaru, che manco a farlo apposta era di Orune), l’omertà, eccetera.
Si assiste ad uno strano fenomeno sociale: un mondo in evoluzione, anche burrascoso, come quello delle zone interne sarde, che viene indagato con strumenti immobili, sempre gli stessi da anni.
Per cui non risulta immobile quel mondo, ma quello che lo osserva.
Un fatto che dovrebbe essere indagato con strumenti nuovi, legati al disagio giovanile, all’irrompere della cultura globalizzante in un contesto periferico, alla carica di violenza insita in una società giovanile che preferisce spaccare vetrine che elaborare strategie di protesta, viene ancora indagato, comodamente, con la balentia.
La balentia è il metro che misura il senso del valore della cultura delle zone interne sarde, ma che nell’accezione deformata della cultura osservante, si è ridotta alla giustificazione del fatto illegale, con una acrobazia indebita e ingannevole.
Quello della balentia è davvero un fenomeno significativo di come un istituto sociale tradizionale venga rappresentato dalla cultura osservante prendendo ad esempio non la sua sostanza, ma il suo aspetto deviato. Per cui per la cultura osservante la balentia, che è un istituto che difende l’etica sociale, diventa, nella sua considerazione indebita, manipolatoria e opposta, la dimostrazione di una società immorale.
Allo stesso modo la “vendetta barbaricina come ordinamento giuridico” è stata considerata nella sua semplificazione odierna, cioè nella visione che nel 2015 si ha di una teoria che era nata per far comprendere, senza giustificare, alla cultura osservante, il fenomeno del banditismo degli anni ’60.
Ed è stato sorprendente notare che il biasimo sull’omertà degli orunesi è scattato, con singolare pregiudizio, subito dopo l’omicidio, senza attendere neppure il lavoro degli investigatori.
Nel frattempo in Svizzera un tizio uccideva 4 persone, parenti della moglie da cui era separato.
E all’incirca un anno fa, nella città sarda che, per cultura, si potrebbe porre all’opposto a quella orunese, in quella Tempio Pausania di apparenza piccolo borghese, presa in giro come “paddhosa” dai comuni circostanti per la sua “fighetteria”, una intera famiglia, compresa un bambino di 12 anni, veniva barbaramente trucidata da un giovane, per futili motivi.
Non oso immaginare cosa sarebbe successo se questi fatti fossero capitati ad Orune.
Dimenticando che, almeno in questo caso, a Orune c’era il morto, e non l’assassino.
Con un altra curiosa acrobazia, infatti, si è criminalizzato il paese della vittima, e non dell’assassino.
Potere dei pregiudizi.
E manco a farlo apposta, la pista degli investigatori porta in paesi fuori da Orune.
Quel povero ragazzo, pare, aveva difeso una ragazza dalla avances di due bulletti nel corso di una festa paesana. Un delitto da discoteca urbana, più che da mondo agropastorale.
E forse dovremo riflettere non tanto sui retaggi che ancora persistono in un mondo agropastorale che aveva, nelle sue manifestazioni, anche accenti di violenza e di giustizia sommaria e vendicativa, ma di come, invece, quelle zone agropastorali, stiano ormai diventando periferia del mondo moderno, di come le barriere verso il teppismo e la violenza di altra natura, si pensi al traffico di stupefacenti, in quelle realtà stiano cedendo.
E in questo caso non possiamo sapere in quale percentuale si ritrovino, in quella carica di odio feroce e violenza, la cultura tradizionale e quella moderna, semplificando intrecci talmente complessi che a volte è meglio negarli che descriverli.
Però una cosa è certa. Che non è un omicidio maturato nel mondo agropastorale.
E’ la modernità, verrebbe da dire. La “nostra modernità”. Che si porta appresso una carica di violenza sottaciuta, legata, in particolare, all’eccessivo valore che si dà al successo, che sia quello del potere, dei soldi, o delle relazioni sociali e affettive.
Anche il nostro moderno mondo mercantile ha la sua “balentia”, il suo senso del valore, e si misura con l’auto che hai, con il conto in banca, con la figa o il figo con cui ti accompagni, con l’abbronzatura esotica, con la posizione sociale e il successo. La nostra è una società violenta che esporta violenza, ma che ha elaborato sistemi di proiezione di questa violenza attribuendola alle altre culture, ad altre etnie, ad altre religioni, o a contesti tradizionali.
Contesti tradizionali che stanno scomparendo, insieme ad una intera economia.
Dovremo preoccuparci, infatti, ma davvero molto, perché un paese dell’interno come Orune, un tempo fiorente borgo pastorale culla, peraltro, di una spiccata e fervida cultura, nel 1961 aveva 5591 abitanti, e oggi ne ha esattamente la metà, 2500.
Perché è il sintomo di uno sviluppo deformato, basato ancora su modelli d’importazione, che non valorizza il comparto agropastorale, e certamente non può essere d’aiuto ai tanti giovani di buona volontà, che nascono e lottano in quei paesi che non stanno nella ciambella costiera, dove avere un futuro e una prospettiva è ancora più difficile che altrove.
Ragazzi di buona volontà come certamente era Gianluca.
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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