Pagine e pagine su Sergio Atzeni, che era senza ombra di dubbio un fuoriclasse. E come spesso succede ai fuoriclasse, l’opera viene celebrata vent’anni dopo la sua scomparsa. Ora che non può parlare lui, tutti ne parlano. Si celebrano le sue “collaborazioni giornalistiche”, perché oltre le collaborazioni non gli fu concesso andare. E mai nessuno che si chieda come mai un fuoriclasse di questo calibro abbia dovuto vagare all’estero, facendo mille lavori diversi per sbarcare il lunario. Per scelta? Così dicono. Le grandi menti hanno bisogno di spazi ampi, di respirare umanità ovunque, di ritrovarsi nella sofferenza e nella privazione. Come il minatore Giacomo Serra, che ne Il figlio di Bakunin trovava la libertà di scrivere W Stalin nelle viscere della terra, trecento metri sotto. Sarà, ma a me qualcosa non quadra. Non quadra, ad esempio, che sui giornali il suo nome ci finisca più da morto, oggi, che ieri da vivo, da estensore di articoli. Un collaboratore, uno dei tanti.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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