Cosa vuol dire sentirsi sardi?
Nulla, assolutamente nulla.
E, pensandoci un po’, è molto meglio che sia così.
Figuriamoci se esistessero delle regole per sentirsi qualcosa.
Ma questo è anche il motivo per cui quel “sentirsi sardi” non vuol dire niente.
Non essendoci delle regole, ciascuno è libero di sentirsi sardo per i motivi che preferisce.
Uno è liberissimo di sentirsi sardo, ma questo non vuol dire che poi gli altri lo identifichino come tale.
Insomma, non è il sentirsi sardi che ci da un’identità sarda.
Nel mio libro “Le identità linguistiche dei sardi”, faccio mie le posizioni che Judith Butler, filosofo americano, ha sviluppato per l’identità di genere.
Avere un’identità significa appartenere a una “comunità di pratica”.
In altri termini, per avere un’identità–cioè per permettere a te stesso e agli altri di identificarti–devi condividere una serie di comportamenti concreti.
Quali sono questi comportamenti?
Con l’implosione della società tradizionale, a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, e con la conseguente esplosione dell’individualismo, c’è rimasto poco a definire i sardi come comunità.
I costumi–e, iconicamente, il “costume”–sono stati abbandonati a favore di mode mutevoli e dettate dai mezzi di comunicazione di massa.
Il paradosso dell’individualismo è proprio quello di aver comportato un maggiore conformismo: non più un accettare i costumi–incluso il modo di vestirsi–di una piccola comunità, ma un inseguire modelli concepiti per vendere gli stessi prodotti a masse enormi di persone in tutto il mondo.
I sardi–come tanti altri popoli privi di stato–hanno abbandonato le loro piccole comunità, vissute ormai come “soffocanti” per la libertà individuale, e si sono avventurati in una comunità molto più grande, in cui a dettare i comportamenti non erano più i vicini pettegoli–sa critica–ma i mezzi di comunicazione di massa, controllati da poteri esterni.
I sardi–come tanti altri popoli privi di stato–si sono omologati a modelli di comportamento italiani, prima, e internazionali, in seguito.
E a questo punto, sfido chiunque a definirmi dei parametri oggettivi che permettano a un sardo di definirsi tale.
Ho scritto “definirsi”, non “sentirsi”.
Su quel “sentirsi sardo” non ho niente da dire.
Mangiare “casu martzu” ti rende sardo?
E se non ti piace?
Insomma, a definire i sardi come comunità c’è rimasta solo la lingua e anche quella in modo problematico, visto che in Sardegna si parlano diverse lingue.
L’unica lingua che tutti i sardi condividono è l’italiano scarciofato di Sardegna.
Quell’ibrido linguistico ci identifica come sardi e italiani di serie C.
Anni fa, certi indipendentisti all’amatriciana hanno identificato l’italiano scarciofato di Sardegna come lingua nazionale dei sardi.
Si appellavano all’esempio irlandese, dimenticandosi che a dare un’identità agli irlandesi non era la lingua–ormai abbandonata–ma la religione cattolica.
E si dimenticavano che l’Irlanda è semplicemente passata dallo status di colonia britannica a quello di colonia vaticana e retrograda.
L’Italiano scarciofato di Sardegna ci attribuisce un’identità, ma una debole.
Appunto quella che abbiamo adesso.
Quella della bandiera che ho pubblicato.
Ci sta bene questa identità da “sardignoli”?
È l’identità di una regione sottopopolata, che rappresenta il 2,7% dell’elettorato italiano, e che quindi è “naturalmente” destinata ad essere usata come territorio su cui scaricare tutte le attività che gruppi molto più potenti di elettori italiani non vogliono sul loro: servitù militari, produzione di energia, industrie inquinanti.
E disoccupazione, ovviamente, visto che i sardi devono emigrare per lasciar libero il territorio.
Se non ci sta bene questa identità sardignola, dobbiamo darcene un’altra.
“Come?” direte voi “Possiamo darci un’identità?”
Si, perché ciò che ti da un’identità non è il sentirti qualcosa, ma quello che fai nella pratica.
Possiamo–anzi dobbiamo–scegliere tra un’identità sarda e una sardignola.
Tra un’identità debole e una forte
Ai sardi è possibile appioppare tutte le porcherie che gli italiani non vogliono a casa loro, proprio a causa della nostra identità debole.
I sardi non si sentono sufficientemente comunità: comunità di affetti e di interessi.
I problemi dei sardi derivano tutti da questo semplice fatto: non si uniscono per respingere i soprusi degli italiani.
Non percepiscono quello che i governanti italiani invece sanno molto bene: i nostri interessi e i loro sono contrastanti.
E noi siamo elettoralmente deboli.
A dir la verità, il fatto è che abbiamo una classe dirigente priva di identità, politici in testa.
È questo che rende possibili tutte le porcherie che gli italiani ci rifilano.
E sarà pure un’esagerazione attribuire una qualsiasi lucidità–ma perversa–ai nostri governanti sardignoli, ma il mancato finanziamento de Sa Die de sa Sardinnia si pone in questa linea di ulteriore indebolimento dell’identità dei sardi. (http://www.sardegnasoprattutto.com/archives/5771)
Siamo italiani di serie C, che si fanno rappresentare da politici di serie C per fare gli interessi della Grande Nazione Italiana.
Se non ci sta bene dobbiamo cambiare e darci un’identità forte.
Un’identità che ci permetta di essere comunità e in grado di opporci alle prepotenze dei governanti italiani.
E quest’identità non può che passare per la lingua: è ora di mettere in pratica il bilinguismo, in tutta la Sardegna.
Tutte le lingue della Sardegna devono essere usate a fianco e a pari livello dell’italiano.
Non solo il sardo quindi, ma anche il gallurese-sassarese, il tabarchino e l’algherese.
Per farci sentire—ma a ragione—sardi e non italiani di serie C che accettano quello che gli italiani rifiutano.
Sentirsi sardi non vuol dire niente, se non fai nulla per essere identificato dagli altri come sardo.
Si può essere sardi soltanto assieme agli altri sardi, solo come comunità di affetti e di interessi.
E i nostri interessi non sono quelli degli italiani: al contrario.
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