Amo moltissimo il ciclismo e lo seguo con una certa passione da quando al posto di Dumouiln, Nibali, Aru e Froome correvano Gimondi, Motta, Panizza, Moser, Saronni e Pantani. C’è stato, è vero, un disamore dovuto alle varie vicende del doping che mi hanno allontanato dalle corse, ma da qualche anno ed elaborato il lutto per Marco Pantani, ho ripreso ad appassionarmi grazie anche a Fabio Aru. Il giro d’Italia lo scorso anno partì dalla nostra terra, da Alghero. Fu un bellissimo giro e quella partenza ancora ce l’abbiamo dentro gli occhi: Alghero, Sassari, Castelsardo. Poi Olbia e la costa orientale sino a giungere a Cagliari. Fabio Aru, purtroppo, era infortunato e quel giro lo vinse con un certo merito Dumoulin. Quest’anno, per la prima volta nella storia, il giro parte da un paese extraeuropeo: Israele. C’è stato un prologo a Gerusalemme poi la seconda tappa da Haifa a Tel Aviv ed oggi la tappa più lunga del giro: 229 Km con partenza da Be’er Sheva sino a raggiungere Eliat. Qualcuno ha storto il naso e qualcun altro ha urlato alla vergogna, in quanto in quelle strade si è rassodato molto sangue, soprattutto palestinese. Lo sport servirebbe ad unire i popoli, dovrebbe essere la metafora perfetta per comprendere cosa sia l’essere avversari ma leali, combattere per vincere ma sempre dentro le regole e forse, dico forse, questo giro poteva servire a far ripartire un dialogo sempre molto complicato tra Israele e la Palestina. Capisco che la situazione di una guerra mai del tutto conclusa non si può risolvere con una moltitudine colorata di biciclette, ma poteva essere l’occasione per comprendere quei luoghi e quelle persone che da sempre li abitano con una convivenza non degna del genere umano. Il Giro d’Italia non passa tra le strade di Gaza e su questo non c’erano dubbi; quella striscia è fuori da qualsiasi circuito, nascosta e dimenticata un po’ da tutti. Eppure, ripeto, questo giro poteva essere un messaggio bellissimo, una spinta ideale per provare a sedersi sul tavolo delle opportunità abbandonando, almeno per una volta, tutto ciò che divide da troppo tempo questi due popoli e cercando, invece, tutto quello che può essere utile per unire. Sono stato a Gerusalemme nel 2014, quando la tensione, a luglio, era molto alta. Ho camminato tra le vie dove le religioni si mischiano tra voci e colori. Ho compreso che quella è una città magica. Il giro poteva rappresentare un punto di partenza per il dialogo. Lo sport poteva osservare quel deserto di voci, quel silenzio colpevole, quella voglia di riscatto di un popolo costretto a vivere in un “non luogo”. Poteva essere tutto questo e forse doveva essere tutto questo. Chi ama lo sport si innamora dei simboli, mitizza uomini e risultati, luoghi e avvenimenti e se li mette dentro lo zaino della propria memoria. Ho atteso che prima di giungere ad Eliot arrivasse Bartali che offrisse la borraccia a Coppi, ho atteso che Panizza, da grandissimo e instancabile gregario, tirasse la volata al suo capitano. Ho atteso – invano – uno scatto di Bugno, uno sguardo di Pantani. C’erano solo molti ragazzi colorati che in gruppo, quasi stancamente, si dirigevano verso l’arrivo, verso le varie vittorie di tappe. Non immaginate quanto sarebbe stato bello raggiungere in bicicletta la spianata delle moschee e trovare musulmani, ebrei, cristiani, copti, armeni, litigare perché speravano vincesse Froome e non Dumoulin in quella strana prima tappa del giro per poi, tutti insieme, ammainare le bandiere e ritornare felici a casa. Felici di aver visto passare da quelle parti il giro d’Italia. Questo non c’è stato e forse si chiedeva troppo allo sport, al ciclismo e alla passione. Le borracce sono finite da un pezzo.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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