Questa città si sta svuotando
Città… paese, vorrai dire!
Si, si sta svuotando. Guardavo le palme nella piazza, l’altra notte. Sono tante, sono diventate alte. Tra una e l’altra ci starebbero comode due o trecento persone. E le palme sono una trentina, messe su due file. Potrebbero starci migliaia di persone in quella piazza, sotto quelle palme. Eppure la piazza era vuota. C’erano i lampioni, le palme che si muovevano e il vento che stava iniziando a soffiare. Sembrava tutto abbandonato.
Vedi, è che tu ragioni come se il tempo non passasse. Ragioni come se quelli che c’erano trent’anni fa ci fossero ancora e per qualche motivo non si facessero vivi. Lo facciamo tutti, capiscimi. Sentiamo l’assenza di quelli che abbiamo conosciuto ma non possiamo cancellarne l’ombra, il riflesso, l’eco. La polvere che hanno lasciato. E allora li aspettiamo. È questo che facciamo in realtà. Li aspettiamo. Ma non ha mai funzionato così. Le cose restano, le cose costruite, le case, le palme, le città, restano qui come se la morte non ci fosse. C’è anche per loro, e lo sappiamo bene. Ma è un’altra specie di morte. Non somiglia alla nostra, come una palma non somiglia a un ciliegio.
Un altro tipo di morte?
Si, la nostra è una morte artificiale, tragica, greca, dai. Quella delle cose è una morte naturale. La porta il tempo quando è il momento. E in questo è una morte che somiglia alla vita in modo impressionante. Proprio l’altro giorno passavo in piazza. Hai presente quanto è grande? Hai presente le panchine tra una palma e l’altra? Bene. Saranno trenta panche distribuite su un ettaro di piazza. Un ettaro di cemento e granito. Ora, se tu ci fai caso, sotto ogni panca, per terra, c’è un buco. Un foro che gli installatori hanno lasciato non so per quale motivo. Sono buchi piccoli. Un centimetro, non di più. Ebbene, l’altro giorno, mentre camminavo, mi sono accorto che ogni buco è pieno di erba. Erbette minuscole, sottilissime. Parenti della gramigna, evidentemente. Foglie lunghe e sottili, come quelle del grano e dell’avena, uguali. E crescono solo in quei buchi. Nel resto della piazza, nulla. Non una fessura, non un filo d’erba, nulla. Capisci cosa significa?
Cosa significa?
I semi di quelle piante mica lo sapevano che gli installatori sotto ogni panca avevano fatto un buco? E che solo in uno di quei buchi avrebbero trovato un po’ di terra e di umidità, e il riparo che li avrebbe protetti dalle scarpe dei passanti. Mica lo sapevano?
No, certo. E quindi?
E quindi immagina tutta quella piazza coperta da una rete immensa di traiettorie. Traiettorie di semi. Sottili e fitte come se fosse un panno. Milioni di semi hanno viaggiato su tutta la piazza per settimane. Hanno esplorato ogni millimetro coi loro voli e i loro rimbalzi. Hanno trovato quasi solo cemento, si sono incastrati, si sono liberati alla prima raffica o al primo fiotto di pioggia e sono ripartiti. E milioni di semi sono finiti in mare, o negli scarichi dell’acqua piovana che finiscono dentro la fogna, o hanno trovato terra lontano da qui, magari a Santo Stefano, o a Caprera, o a Capo d’Orso. Milioni. Solo qualche seme (qualche centinaio?) è riuscito a trovare un buco sotto una panca e ha potuto germogliare. E quel giochino lo fanno da sempre, e lo fanno su qualsiasi terra dove ci sono piante. Devono coprire tutto il mondo ogni volta con i loro percorsi, per trovare alla fine un angolo dove morire e dare vita a nuove foglie. E quella piazza e tutt’altro che vuota.
Si ma…
Lo so. È vuota di persone ed è piena di cose. Ed è piena di fili d’erba in agguato sotto le panchine, pronti a ricoprire il mondo alla prima occasione, al primo sbalzo di primavera.
A noi sembra vuota perché misuriamo la vita usando quelli che sono morti. Eravamo in tanti, ora siamo pochi. E ci sembra che stiamo per morire anche noi. In realtà non è così. Ma se non abbassiamo mai lo sguardo a quei semi e ci concentriamo sulle palme che oscillano e sulla piazza vuota, non ce ne rendiamo conto mai.
Nacqui dopopranzo, un martedì. Dovevo chiamarmi Sonia (non c’erano ecografi) o Mirko. Mi chiamo Luca. Dubito che, fossi femmina, mi chiamerei Sonia. A otto anni è successo qualcosa. Quando racconto dico sempre: “quando avevo otto anni”, come se prima fossi in letargo. Sono cresciuto in riva a mare, campagna e zona urbana. Sono un rivista. Ho studiato un po’ Filosofia, un po’ Paesaggio, un po’ Nuvole. Ho letto qualche libro, scritto e fatto qualche cazzata. Ora sto su Sardegnablogger. Appunto.
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