La teoria dei sei gradi di separazione afferma che ogni persona può essere collegata a una qualunque altra al mondo attraverso una catena di conoscenze e relazioni con massimo cinque intermediari. Chiunque può provare a sperimentarlo anche su se stesso: scegliete una persona a caso, e contate quanti gradi vi separano. Tempo fa mi ero divertito a stabilire quanti ce ne sono tra me e il presidente degli Stati Uniti Barack Obama e ho scoperto che ne intercorrono quattro. Un gioco, un passatempo che però non ci dà sempre la misura di quanto i destini degli esseri umani possano essere diversi e tragici senza toccarsi minimamente, ma soprattutto non ci indica la posta in gioco.
Qualche settimana fa ho provato a cercare gli intermediari tra me e Giulio Regeni, il brillante ricercatore arrestato e assassinato dalla polizia o dai servizi segreti deviati egiziani (così si presume) e mediaticamente usato dagli intellettuali abituati a fare la rivoluzione con la tastiera e sulla pelle degli altri. Dunque, se è vero che conosco un paio di giornalisti del Manifesto che certamente interagiscono col Direttore, mi separano da lui solo tre gradi e quattro per arrivare alla faccia dei suoi assassini, quelli che l’hanno torturato in modo brutale, e cinque da chi ha cercato volontariamente di depistare le indagini. Dalla verità siamo invece molto distanti, dal destino come significato della sua vita e della sua morte. Possiamo infatti solo indicarne un valore, immaginare cosa abbia passato in quei giorni, quello che vive e ciò che oggi prova la famiglia e chi l’ha amato mentre non li abbandona mai il pensiero delle sevizie che avrà subito. Ovvio che le persone più ci sono vicine, più ci coinvolgono nel dolore quanto nella rabbia. Altrimenti col tempo diventa solo il riflesso di un fatto di cronaca che poi è sfruttato dai media. Da qualche giorno invece penso a quanti gradi di separazione intercorrono tra me e Luca Varani, il ragazzo di ventitré anni, originario dell’ex Jugoslavia e adottato da una famiglia di Roma dopo aver vissuto in un centro d’accoglienza per minori nel suo paese. Regeni è andato in Egitto per un ideale, Luca è arrivato in Italia con la speranza di una vita migliore. Anche in questo caso solo quattro gradi di separazione tra me e i suoi assassini, ma mentre la rabbia nei confronti dei poliziotti egiziani è umana quanto politica (e riesce a dare la misura degli orrori che si vivono in quei paesi, dove la libertà di parola, di informare e combattere sono solo miraggi e ideali per cui Regeni muore), calcificando maggiormente la nostra idea di democrazia e la necessità di non abbassare mai la guarda di fronte ai diritti umani negati, gli assassini di Luca, Manuel Foffo e Marco Prato detto Marc, ci trascinano nell’infernale gorgo della nostra esistenza, dove anche Amnesty International diventa inutile perché la morte di un ragazzo di ventitre anni può diventare un semplice e banale passatempo con l’unico scopo di «vedere che effetto faceva». Se potessi descrivere il vuoto di fronte a una simile affermazione, tutto sarebbe più facile. Il problema è quando il vuoto fai finta che in qualche modo non ti riguarda, invece è lì in agguato perché inizi a sentirlo sulla pelle. Come dire: qui c’è anche la mia gente (la nostra gente!), italiani e persone che potrei conoscere, altro che sei gradi di separazione. Manuel ha 28 anni, studia all’università ed è il proprietario dell’appartamento dove è stato compiuto l’omicidio. Il padre che lo accompagna a costituirsi è assicuratore e gestisce un ristorante. Dopo un incidente stradale di qualche anno fa, gli era stata ritirata la patente, restituita solo settimana scorsa dopo aver superato l’ultimo test su alcol e droga all’ospedale Pertini. Marc ha un anno in più, anche lui è uno studente e organizza eventi (gay, e questo è bastato a un certo sterco pseudo-intellettuale per alimentare la fiammella della sua aberrante stupidità oltre che cattiva fede e palese frustrazione). Il padre è un manager, segretario dell’associazione Mecenate 90, consulente del Mibac, il ministero dei Beni e delle attività culturali. Secondo ciò che scrive Repubblica, dai cellulari di Marc e Manuel, quella sera, partono altri 22 messaggi identici a quello ricevuto da Luca. I due killer stanno cercando la vittima giusta. La cercano anche per strada, ma la cosa sembrava più complessa, troppo pericolosa. Ma quando Luca «è entrato in casa, ci siamo guardati negli occhi ed è scattato un clic: era lui la persona giusta da uccidere». Mettono la vittima a suo agio, gli fanno bere un drink nel cui bicchiere sciolgono un farmaco e poi lo mandano in bagno a lavarsi. Gli recidono le corde vocali per non farlo gridare come indicano gli inquirenti della procura di Roma. Dunque pensavo, nell’ambiente gay conosco molti militanti che organizzano serate, qualcuno di loro ha certamente conosciuto Marco Prato. Da lui mi separano solo due gradi. Ma se il problema non fosse quello che ci separa dagli altri, ma piuttosto quello che ci unisce? Parliamoci chiaro, siamo tutti capaci di giudicare, ma gli orrori peggiori sono quelli commessi da chi abbiamo vicino e non ce ne rendiamo neppure conto. La questione dunque, al di là del fatto che siamo tutti connessi in un modo o nell’altro, è che siamo tutti dentro lo stesso inferno. Chiamatelo come vi pare, date la responsabilità alla droga, ai problemi psicologi personali, alla mancanza di valori, ai gusti sessuali, all’educazione, a quello che vi pare. Consultate pure tutti gli esperti del pianeta, loro v’intratterranno durante Porta a Porta, dove tutto è vivisezionato, descritto, puntualizzato, ma niente e poi niente potrà descrivervi l’inferno in cui viviamo (e vivete!). Perché la cocaina la usano in parecchi, inutile raccontarci favolette, perché la percentuale di impasticcati per problemi psichici è elevatissima, basta parlare con un medico di famiglia. Perché si uccide anche per molto meno nei film e nelle serie televisive che ci somministrano quotidianamente. I serial Killer che tamponano la nostra sete di orrore, il nostro bisogno di esorcizzare la paura del Mr Hyde che alberga in noi, agiscono con la stessa banalità. Perché sì, la vita di un ragazzo può avere lo stesso valore di quella di un topo in un laboratorio, vediamo che effetto fa, con la differenza che almeno la cavia perisce per garantire all’umanità di progredire. Gli animalisti avrebbero qualcosa da obiettarmi su questo tema, ma almeno ha un senso. Persino i crimini nei lager sono storicamente collocabili. Persino i crimini di Pinochet, per quanto assurdo sia il discorso. Nel nostro inferno quotidiano invece, nessun nemico e come canta Michelin a Sanremo «Nessun grado di separazione, nessun tipo di esitazione, non c’è più nessuna divisione tra di noi». Vero, banalmente e tragicamente vero: siamo tutti immersi in questo grande vuoto, si difende il proprio credo con una specie di tifoseria ma nient’altro che il baratro, dove nulla ha più senso. O per lo meno, io il senso non ce lo vedo più, se neppure il vile denaro è il movente che ci fa uccidere dai tempi della Bibbia ma solo la noia tra un coca-party e l’altro.
In questa categoria sono riuniti una serie di autori che, pur non facendo parte della redazione di Sardegna blogger collaborano, inviandoci i loro pezzi, che trovate sia sotto questa voce che sotto le altre categorie. I contributi sono molti e tutti selezionati dalla redazione e gli autori sono tutti molto, ma molto bravi.
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