Io i colloqui scolastici me li sogno anche d’estate. Non so perché. Sarà che diventano un po’ l’icona dell’anno scolastico che trascolora durante i due mesi di lontananza dalle lezioni, sarà la frenesia delle persone che li percorrono sempre convulsamente, saranno i tempi che li scandiscono freneticamente, ma non riesco proprio a togliermeli dalla testa. E poi, anche d’inverno, io ai colloqui ci arrivo sempre in ritardo… mezz’ora dopo l’inizio, e così, giunto a scuola, mi sorgono sempre i sensi di colpa. Ovviamente, perché mezz’ora dopo l’inizio c’è già la fila. I colloqui si tengono prima di Natale e prima di Pasqua. I colloqui di Pasqua, poi, sono i più importanti, quelli che devono dare certezze ai genitori sulle loro capacità educative e speranze ai figli di un dignitoso regalo per le Feste, magari l’ultimo modello di cellulare Android da mostrare orgogliosi ad amici e professori, perché no. Giunto a scuola, taglio la folla, accalcata alla porta della mia aula, con sicurezza sufficiente per far capire che sono io il docente, anche se un docente che arriva mezz’ora dopo l’inizio, e dunque animato da una certa fretta. Faccio in tempo a sedermi che devo già alzare la mano in segno di saluto. Questo di stringere la mano da lontano è in realtà un trucco per prendere tempo e studiare il viso della madre che è già qui, davanti a me, pronta a sfoggiare il classico sorriso di circostanza mentre io mi sto ancora chiedendo chi sia in realtà questa bella signora che mi sorride sicura. Devo mostrare di sapere chi sia, e subito. In caso contrario lei penserebbe che faccio finta di non conoscerla perché il figlio va male, o, ancor peggio, che non mi ricordi di lei, e questo sarebbe lo sgarbo peggiore per una signora raggiante che ha passato tutta la sera precedente dal parrucchiere per ricevere da me i complimenti che il marito non le concede più da anni… la classica figura che mi segnerebbe per i tre anni successivi, ogni volta che la incontrassi nuovamente ai colloqui o magari per strada davanti alle vetrine dei negozi. Così mi butto. “La signora…” “La signora Espa, no? Lei ha sempre voglia di scherzare, professore”, mi sorride lei, quasi complice. Sono salvo! “Ah… beh… suo figlio Enrico…”, comincio così, finalmente. A questo punto i colloqui possono cominciare, e ogni scrupolo volar via, preso dal vortice delle madri e dei padri che ritmicamente entrano da quella porta, quasi in un ballo di gruppo stile anni Sessanta che mi travolge senza più il tempo per aver paura di fallire. Ma non tutti i genitori sono uguali. Le madri e i padri che si presentano ai colloqui (perché molti sono quelli che li saltano regolarmente per snobismo o menefreghismo) si possono infatti suddividere in tre categorie. I primi si presentano generalmente in coppia, e sfoderando un incrollabile sorriso sembra che siano ai colloqui soltanto per dimostrare al mondo intero che costituiscono una famiglia felice e che nessuna comunicazione riguardo al figlio, persino le più nefaste, può rimuovere questo loro ottimismo esistenziale. Sono le coppie che presenziano soltanto per essere gratificate, nel loro ego, dal sicuro successo dei figli. I secondi, in genere si parla di padri, ancora in rigido completo da lavoro, sono degli ottimi replicanti dei ragionieri tardo-ottocenteschi mentre su un foglio strappato da un’agenda riempiono le caselle a mano a mano che riferisco loro i voti. “Buongiorno, professore, mi dica…” “Italiano… sette e… sei…” “Sì”, fa il padre, quasi impassibile, “e storia?” A quel punto mi fermo e l’osservo attentamente. Avrei gradito sicuramente una reazione più interessata, comunque… “Storia… cinque… beh, deve capire che suo figlio…” Ma il padre non mi dà nemmeno il tempo di spiegare. “La ringrazio, arrivederci, è stato un piacere!” Già, un piacere. I padri… le mogli sono al lavoro e questo toglie loro ogni predisposizione a doversi accollare l’intero onere dell’educazione del figlio (anche se soltanto per poco più di due ore). Tutto il resto non interessa loro, e così se ne vanno sempre soddisfatti di aver adempiuto al difficile compito di padre senza aver praticamente mai aperto bocca. I terzi, anzi le terze, visto che si parla di madri, si presentano in genere con un viso lugubre, che chiede unicamente di essere risparmiato dalle notizie quasi certe sul proprio, irrecuperabile figlio. Sono spesso madri separate, ormai rassegnate a ogni sorta di sciagura che la vita riservi loro. Sono discrete, e vivono nella speranza che gli altri si accorgano del loro indicibile, segreto dolore. C’è poi un’altra categoria, sempre costituita da donne, una categoria minore se vogliamo, ma sempre più frequente. Chi ne fa parte, mi prende spesso per uno psicanalista in grado di curare le ferite determinate dalla propria separazione con il marito, con cui le suddette convivevano talvolta in casa da anni o comunque separate da una distanza troppo breve. E qui la categoria, o sottocategoria, ultimamente dilaga per numero. L’uso dei colloqui come “confessionale” terapeutico è ormai molto frequente: coppie di fatto, coppie separate, coppie in crisi. Una volta una madre mi aveva chiesto, fiduciosa: “Mio marito mi tradisce. Lei cosa mi consiglia di fare?” Infine c’è un’ultima categoria. Quella più tenera, in fondo. Quella che mi invidia perché sono riuscito a condividere con i rispettivi figli poesie o confessioni (spesso nei temi, anche se lì ci sarebbe dovuto essere il segreto professionale) che mai nemmeno lei ha avuto il privilegio di leggere. E’ tale l’enfasi nelle loro parole, mentre glielo faccio quasi pesare, che per un attimo mi sento, ingiustamente, il re del mondo. “Mi dica, ma lei ha capito cos’ha mio figlio?” Io prendo tempo, inspiro, e sparo la prima stupidaggine che mi viene in mente, così, soltanto per prolungare quell’attimo di apparente superiorità che ho paura mi sfugga da un minuto all’altro. Non capita spesso, infatti, che un genitore mi invidi perché trascorro gran parte della giornata con quel suo adorato marmocchio che nell’altra metà della giornata la soffoca con i suoi problemi adolescenziali. Ora, però, c’è la madre di Enrico seduta su quella sedia e devo trovare la formula giusta per farla andar via soddisfatta: darle una speranza, ma senza esagerare, perché il figlio, come gli altri, è capace di far saltare ogni previsione men che ottimistica si possa fare sul suo conto. Cominciano i colloqui. Per davvero, stavolta.
In questa categoria sono riuniti una serie di autori che, pur non facendo parte della redazione di Sardegna blogger collaborano, inviandoci i loro pezzi, che trovate sia sotto questa voce che sotto le altre categorie. I contributi sono molti e tutti selezionati dalla redazione e gli autori sono tutti molto, ma molto bravi.
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