La sughera è Gallura, è Sardegna fin dal terziario, sessanta milioni di anni fa, il tempo a cui risale questa pianta sorprendente. La sughera è memoria, lavoro distinto e ben retribuito. È albero della storia e della cultura. Si dice che a Roma esistesse una quercia da sughero millenaria con iscrizioni provanti l’uso sacro della pianta. E nell’antica Grecia era simbolo di libertà e onore, era pianta sacra che non poteva essere abbattuta senza il permesso dei sacerdoti.
La sughera – Quercus suber – vigorosa e generosa, vive fino a 300 anni, spesso sopravvive al fuoco suo nemico mortale. Neppure il famelico bruco, la Limantria dispar, che divora per intero le sue foglie, riesce ad abbatterla. Solo la neve, se abbondante, lacera i suoi rami, ferite poi lenite dal nutrimento della scorza. La sughera sale in alto anche oltre i 20 metri. Il tronco è robusto, possente, raggiunge il metro e mezzo di diametro. La chioma è maestosa, sempre verde, foglie ovate, spesso dentate, d’autunno appesantite dalle ghiande, nutrimento di fauna d’ogni genere, di mandrie e branchi d’allevamento.
La sughera è femmina forte e delicata, essa è, naturalmente, il sughero, essenza morbida e leggera, immarcescibile, ecosostenibile, riciclabile, antigraffio, antimacchia, ignifuga, isolante. Il sughero si estrae dalla pianta e l’estrazione non abbatte la sughera come la vendemmia non strappa la vite. Si utilizza una scure, una scure amica, che incide giusto la corteccia senza intaccare il fellogeno, madre del sughero, poiché ciò pregiudicherebbe la raccolta futura e la vita stessa della pianta. Operazione complessa che postula competenza, precisione, conoscenza e fatica. Si estrae il frutto, senza causare danni alla pianta anzi, se la mano è sapiente, fortificandola e rigenerandola. Molti non lo credono, tessendo ambigue campagne ambientaliste contro la distruzione dei boschi per favorire, magari, il mercato del tappo di silicone.
La campagna di raccolta, la decortica, è fase molto importante del ciclo produttivo. L’estrazione è eseguita da uomini consumati da mestiere antico, appreso da generazioni addietro dai francesi e dagli spagnoli arrivati in Gallura agli inizi del secolo XIX. Scorzini li chiamano, brutto aggettivo, meglio bucadòri. Le operazioni di raccolta, dicono i galluresi, è “andare in foresta”.
La fatica inizia all’alba, tra maggio e agosto, nelle caldi estati mediterranee. La giornata di lavoro è scandita da una pausa di mezz’ora, verso le nove, per consumare lu smulzu, prima di finire la quotidiana fatica verso mezzogiorno. E’ allora che si apparecchia la mensa, in un angolo d’ombra dove magari soffia la frescura. Si stende una pezza per terra per posarvi il pane estratto dalla sacca o dalla bisaccia. Poi sbuca prosciutto, salsiccia, formaggio, l’immancabile lardo, qualche ortaggio e scatolame. A vicenda li bucadòri si scambiano i cibi e il vino dai fiaschi impagliati, mentre l’acqua di fonte è tenuta al riparo dalla calura in barili di sughero. Questo è il momento culmine della giornata, riposo conviviale. Tutto è accompagnato da commenti sulla qualità del rispettivo vino che ognuno si porta appresso, dei salumi, degli ortaggi, tutto di autoproduzione. Dopo pranzo, prima del rientro a casa, un’ora di riposo è d’obbligo. Adagiati a terra e per cuscino il tascapane o un pezzo di sughero. Qui finisce la giornata lavorativa, ma non per tutti. Per chi rimane in foresta, a sorvegliare il raccolto, ancora qualche albero da scorzare, con passo andante ma non troppo. Lu bucadòri ha esaurito le energie nella lunga mattinata, adesso deve organizzare la cena e sistemare la tenda o un riparo precario, costruito magari con il sughero appena estratto per la notte.
Un bucadòri, deve essere sapiente, usare forza e sensibilità, riconoscere le caratteristiche del sughero per poter agire con disciplina. Quelli bravi, coloro che insegnano i segreti del mestiere, riconoscono se la pianta è pronta a donare il suo frutto. Lu bucadòri sa discernere, ha occhio indagatore, non ha bisogno di affondare la scure per capire se la corteccia è matura: ho visto bucadòri lusingare la pianta, sentirne gli umori, la linfa che attraversa il tronco. Prima di affondare la scure, è certo di non violare la pianta, di non lacerare il fellogeno. I colpi maldestri, come capita ai senza mestiere, generano tumori e la pianta potrebbe rinsecchire. Occorre percepire lo scorrere del plasma, il potenziale energetico del sistema circolatorio della pianta per la sovrabbondante traspirazione dovuta alla temperatura estiva, è allora che il distacco è propizio. Verificata la fattibilità dell’azione, lu bucadòri delimita l’arca d’estrazione, con due incisioni ad anello, interessando tutta la circonferenza del fusto, una in basso e una in alto, collegati da un taglio perpendicolare. Altri tagli verticali sono suggeriti quando l’albero assume dimensioni maestose; se la pianta è giovane è sufficiente un’incisone, massimo due. Dopo aver inciso la corteccia, batte a martello con la testa dell’accetta sulla scorza poi, infilando il cuneo del manico nel taglio verticale, fa leva tra corteccia e fellogeno e il sughero abbandona il tronco. Un crock pieno e rotondo annuncia lo strappo. Non senza un po’ di resistenza, con schiocchi secchi la plancia tonfa al suolo, adagiata, talora, sui cisti del sottobosco. Nelle notti di plenilunio il sughero è più elastico, soffice, stacca meglio, poiché il fellogeno è grondante di linfa. Lungo il tronco denudato si effettua un leggero solco per disattivare la funzionalità del fellogeno ed impedire, lungo quella stradella, al sughero di crescere. Questa operazione impedirà la fessurazione della schiena della plancia di sughero ma soprattutto, faciliterà l’estrazione ed una migliore qualità della produzione successiva.
Unico ausilio di lu bucadòri è la scure, dal manico lungo il giusto per le braccia dell’uomo che lavora spesso in posizione insicura. Occorrono mano precisa e gambe ferme, specialmente quando si estrae a cavalcioni sull’albero o su una scala a pioli. La scure va armeggiata con destrezza. Chi estrae il sughero non lo fa solo per lavoro, c’è dell’arcano in questo lavoro, un legame ancestrale tra l’uomo e la terra da cui emerge con forza la quercia; lu bucadòri è investito di un compito quasi sacerdotale, egli è custode della salute del bosco di sughera. Per questo li bucadòri amano definirsi uomini del bosco o della foresta e hanno facce che ricordano la Sardegna arcaica che continua a vivere nei silenzi di un antico mestiere ignoto ai più.
Dove crescono i boschi di sughera, i terreni sono spesso impervi, scoscesi, marginali, attecchisce solo macchia e cespugli spinosi. Le querce prosperano in modo disordinato. Per raggiungere la pianta è necessario aprire varchi nella boscaglia con roncola o macete. Difficile imbattersi su terreni liberi da arbusti, agevoli alla raccolta. In questi disagevoli ambienti ci si muore in gruppi, squadre composte a coppie più uno o due carriadòri che raccolgono e trasportano a spalla i fasciami di sughero fino a l’impòstu, il punto di raccolta. La squadra si completa con il portatore d’acqua, spesso proprietario del bosco, che funge anche da stendano, che cifra sul fellogeno denudato, con una vernice rossa o bianca, l’anno di estrazione.
Da quel momento il sughero sarà una plancia pronta a narrare una storia, magari di vino pregiato che finisce tra le mani di qualche illustre uomo del mondo. Dalla Gallura al Quirinale o Palazzo Chigi, alla Casa Bianca, al Cremlino, a Down Street, alla Città Proibita o negli altolocati ristoranti di mezzo mondo. Ma il prodotto di quella plancia potrebbe finire perfino in una navicella spaziale, materia straordinaria per schermare congegni e uomini dai raggi cosmici o per le valvole dello Shuttle o per la produzione di morbido tessuto adatto per la confezione di abiti e accessori d’alta moda. Ma prima di tutto ciò il sughero ha necessità di cure e lavoro di tante mani esperte e di un tempo lungo, un anno o anche due, prima del suo utilizzo come prodotto industriale.
Quando la quercia è imponente, l’arca della plancia misura alcuni metri in altezza e circa uno in larghezza. Intatta dei suoi umori, pesa talvolta molti chili ma bastano poche settimane al sole per renderla leggera. È magnificente il tronco dell’albero appena libero dall’armatura della corteccia, madido di linfa, sa di vaniglia d’orchidea selvatica. Palpitante, emerge dall’estrazione la nuova scorza color ocra chiaro come la creta o rosa cipria, talvolta anche rosso arancio. Basta poco tempo perché viri al rubino, al rosso sangue. È incantevole osservare le sughere disadorne del proprio abito. Il tronco è messo in evidenza nell’essenzialità. Solo pochi giorni, poi il fellogeno inizia la ricrescita e nel volgere di poche stagioni il nuovo sughero è in gestazione.
La prima decortica di una giovane quercia, la demaschiatura, si effettua quando l’albero ha circa 20 anni e una circonferenza di almeno 60 centimetri. L’altezza del taglio è costituita da un multiplo della circonferenza, pari a due volte. Questa estrazione è necessaria per le future produzioni sulla pianta già adulta, ma il sughero che si ottiene non ha pregio, viene chiamato sugherone o sughero maschio e finirà in frantoio per produrre pannelli isolanti. Le successive estrazioni avverranno a intervalli di almeno undici anni, meglio 12 o 13, se il sughero non ha raggiunto un calibro adeguato. Mezza generazione è necessaria tra un’estrazione e l’altra, sempre che il bosco non venga deturpato dalla maledizione degli incendi, perché allora quel raccolto sarà proprio andato in fumo e forse quell’albero non potrà dare mai più buoni frutti.
Il tronco della quercia talora è bitorzoluto o curvato dal vento o ricco di protuberanze globulose dalle forme variegate e fantastiche da cui, sin dal tempo dei tempi, si ricavano contenitori, ciotole e vassoi, oggi adottati dai ristoranti alla moda, fino a ieri utensili d’uso quotidiano nelle case dei galluresi. Particolare attenzione viene dedicata all’eliminazione del pedone, il sughero che sta alla base del tronco, facilmente attaccabile da un genere fungino, l’Armillaria mellea, responsabile della macchia gialla, una delle cause dell’insorgere del TCA, Tricloroanisolo, la molecola che genera le deviazioni olfattive definite comunemente “gusto di tappo”.
Il sughero separato dalla pianta viene raccolto e ammassato, selezionato, classificato per calibro, qualità, spessore e finalità d’utilizzo. La raccolta è faticosa, lavoro duro, malagevole, occorrono schiena e braccia forti, destreggio nel caricare il fasciame in spalla. Lu carriadòri, è colui che raccoglie le plance appena strappate all’albero per essere trasportate al punto di raccolta, a volte lontano anche chilometri, tra sentieri impervi nella boscaglia. Quanta fatica e sudore, quante invettive lungo il tragitto, mentre trasporti il carico a spalla. Quanti morsi e quante torture dal peggior molestatore di lu carriadòri. Finché non la conosci, finché non senti il morso sulla carne di quelle voraci mandibole mentre trasporti a dorso il carico di plance, non puoi intendere cosa sia la formica rizzaculo (Crematogaster scutellaris). Proverbiale la sua aggressività e capacità di mordere; ha testa rossa e corpo nero, questo minuscolo insetto che scava il nido nella corteccia delle querce creando un sistema di gallerie che ospitano migliaia d’individui. S’annida nel colletto della plancia, molto spesso nel piede dell’albero e non puoi liberartene. Spesso l’avverti quando il carico è gravato sulle spalle, lungo il tragitto, è lì che senti le carni ardere dal morso della rizzaculo. Dopo qualche giorno di supplizi, la pelle ispessisce e non brucia più, sopporti con fastidio, ma sopporti. Alla fine della giornata quando arriva il momento di levarsi gli indumenti di lavoro zuppi degli umori del sughero, di sudore e dell’acre odore della rizzaculo, è un gran momento di sollievo dopo le torture patite durante la sofferente e afosa giornata di lavoro.
A fine stagione ogni bucadòri tornerà a fare il proprio abituale lavoro perché quello è lavoro per pochi mesi l’anno. Alcuni torneranno nelle fabbriche di sughero, altri alle attività agricole, altri ancora faranno ritorno nel bosco per il taglio della legna. Non prima però di un periodo di riposo e ristoro. In quei giorni si daranno appuntamento la mattina al bar per il caffè o sulle panchine di piazza del Popolo a Calangianus ad evocare un’altra stagione conclusa, a fare paragoni e confronti con altre campagne chiuse anni addietro, con altre esperienze consumate in altre località della Sardegna o delle foreste in Corsica, in Toscana, in Sicilia persino in Francia, Spagna e Portogallo.
Li bucadòri ogni anno sono sempre meno, questo è il lavoro agricolo forse meglio retribuito al mondo. Ma è difficile ed è per pochi mesi all’anno. I vecchi lasciano il mestiere con rimpianto, certi anziani persino piangono al ricordo di non poter più lavorare, mentre i giovani che rimpiazzano i vecchi sono sempre meno. La nuova manodopera è reclutata tra gli immigrati che arrivano dalla Romania, dal Maghreb, dalla Macedonia. Per loro è un lavoro di circostanza. Non lo amano come i nostri bucadòri. Sono incerti, improbabili, talora quasi brutali, con le sughere. Vogliono un altro lavoro, la foresta la paventano.
Dei bucadòri ce ne sarà, per fortuna, sempre bisogno, non c’è un altro modo per estrarre dall’albero la morbida e pregiata corteccia, l’oro giallo, come molti enfaticamente chiamano il sughero. Le caratteristiche strutturali delle sughere non consentono l’adozione di sistemi meccanici in grado di risolvere razionalmente l’intervento. Il portamento del tronco, l’altezza dell’impalcatura, lo spessore del sughero sono fattori tipici di ciascuna pianta, estremamente variabili nella stessa coltivazione. La meccanizzazione è un rischio per la salute della pianta e potrebbe pregiudicare il raccolto futuro. Solo l’uomo, con un corretto rapporto con l’ambiente, può assicurare per le generazioni avvenire lo sfruttamento sostenibile di una risorsa fondamentale per il nostro fragile ecosistema, per fermare l’avanzata della desertificazione del territorio e della desertificazione sociale, che entrambi iniziano ad avanzare. Tra il secolo XVIII e XIX, la Sardegna era stata spogliata del suo manto di sugherete. Legname d’opera e d’ardere, carbone, potassa e tannini venivano prodotti dall’abbattimento delle sughere. Quella fu l’epoca della scure mortale, avversa alla Sardegna e all’uomo, scure devastatrice, affatto amica come lo è la scure dalla lama curva, l’arma di li bucadòri.
Anche quest’anno la sughereta, come da infiniti anni, darà la sua messe. La stagione di raccolta è appena iniziata e a settembre si canteranno i peana o il de profundis. E come da consuetudine, si parlerà dei tempi andati, di un raccolto sempre più svilito sia per i proprietari che per gli industriali. Si rievocherà non senza rimpianto, quando li bucadòri trascorrevano la stagione lontano dalla famiglia e con le paghe guadagnate potevano finire un altro pezzo della casa, che come la quercia cresceva di stagione in stagione.
Laureato a Cagliari in Giurisprudenza. Ha frequentato masters in direzione aziendale e sui sistemi gestionali delle pubbliche amministrazioni. Già impiegato in un ente di ricerca in agricoltura, opera nel settore della consulenza di Direzione. Svolge studi economico-sociali per conto delle P.A. Gavino Minutti era anche suo nonno, e il nonno di suo nonno, del 1797, tutti nati a Calangianus,
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