Illustration of a coal miner hardhat with pick axe viewed from side set inside circle and sunburst in background done in retro style.
Non pensavo di scrivere tanto presto un altro bunker. No, perché ero a corto di idee e mi stava un po’ stufando l’idea della rubrica a tema (d’altra parte, una rubrica è normale che sia a tema, quindi magari sono strano io; motivo di più per anelare l’oscurità sotterranea). Non pensavo, dunque, eppure… Negli ultimi giorni ho visto cose, vicine e lontane, che voi umani vi comprereste picco e pala e iniziereste a scavare anche voi. Tralasciando quelle vicine, sulle lontane è come al solito imbarazzante scegliere cosa scartare e di cosa parlare. C’è l’eliminazione della Nazionale dai mondiali, la pervicacia di Tavecchio e la dannata sensazione che il calcio italiano cambierà due o tre cose per non dover cambiare nient’altro. Poi c’è il generale americano che vuole disobbedire a Trump in caso di schermaglie nucleari con Kim. A questo proposito segnalo lo slittamento (mio e vostro, perché so che siete d’accordo) verso insospettabili simpatie golpiste; nel senso che il generale che annuncia di voler disobbedire su una cosa fondamentale al suo presidente regolarmente eletto dal popolo, tecnicamente sta annunciando un piccolo golpe o comunque un atto eversivo grave, e noi ne siamo tutti contenti. Poi c’è la sinistra che come al solito non riesce a unificarsi non dico attorno a un’idea, ma almeno a una paura, a un problema, a un nemico. Poi ci sono i fascisti che premono alle frontiere di quella normalità che –ditelo- ci era sembrata eterna, e invece probabilmente era solo una parentesi anche abbastanza breve. Oggi però vorrei dedicare il mio sudore, con tutte le scintille provocate dalla punta del picco che scheggia il granito, e che solcano in modo effimero l’oscurità in cui sono immerso (se non avete mai usato un picco nel buio di un bunker, non potete capire) vorrei dedicarli dicevo, a quelli che hanno pianto Totò Riina. Non parlo dei familiari, su cui mi viene male esprimermi, ma di tutti quelli che hanno detto cose tipo: la vera mafia è lo Stato, Riina almeno portava lavoro alla sua gente, Emma Bonino ne ha ammazzato di più. Eccetera. Ora, io non so quanti siano i fans di Riina, non so quanto siano consapevoli, non so quanto siano di fatto coerenti col loro pensiero nella vita di tutti i giorni, se cioè si comportano veramente come potenziale manovalanza delle varie mafie, ma credo che questi, non altri, questi siano il sintomo peggiore tra tutti quelli che la nostra miseranda società manifesta. Questi sono talmente arrabbiati con le regole, col sistema economico che li tiene ai bordi di qualcosa, con le istituzioni e con noi tutti, da pensare che anche la mafia possa andar bene purché dia lavoro. Non so e poco mi interessa stabilire quanto sia di destra o di sinistra questo degrado, quanto siano di destra o di sinistra le colpe per esserci arrivati. A me basta dire a me stesso, intanto, che non ci può essere sinistra, né democrazia, né civiltà, se non esiste nei programmi politici il superamento di questo sintomo. Dire che la mafia è perdonabile purché dia lavoro è il contrario di un programma politico, è la barbarie come obiettivo, è l’anarchia delle pulsioni. Per questo il mio picco continua a mandare scintille nel buio in fondo al mio bunker, perché mi sembra che l’eradicazione culturale della mafia, in fondo, non sia obiettivo prioritario per nessuno.
Nacqui dopopranzo, un martedì. Dovevo chiamarmi Sonia (non c’erano ecografi) o Mirko. Mi chiamo Luca. Dubito che, fossi femmina, mi chiamerei Sonia. A otto anni è successo qualcosa. Quando racconto dico sempre: “quando avevo otto anni”, come se prima fossi in letargo. Sono cresciuto in riva a mare, campagna e zona urbana. Sono un rivista. Ho studiato un po’ Filosofia, un po’ Paesaggio, un po’ Nuvole. Ho letto qualche libro, scritto e fatto qualche cazzata. Ora sto su Sardegnablogger. Appunto.
Renatino e i misteri di Roma (di Giampaolo Cassitta)
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Ero Giorgia, e ricanto. (di Giampaolo Cassitta)
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Da San Gavino a San Cristoforo, quando colonizzammo il Villaggio Verde. Ovvero il trasloco (di Sergio Carta)
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