“…Pasquale, Concetta, Pupella, Luisella e Felice si avvicinano alla tavola. Poi si alzano di botto e, tutti in piedi intorno alla tavola, si slanciano con grande avidità sui maccheroni fumiganti, divorandoli e abbracciandoli con le mani. Cala la tela”. La riconoscete? Per la farsa europea è come un mito di fondazione. E’ la scena finale del primo atto di “Miseria e nobiltà”, così come la scrisse Eduardo Scarpetta alla fine dell’Ottocento. Non so se anche senza il film di Marco Mattoli con Totò (1954), sarebbe diventato un patrimonio della cultura italiana noto quanto la Pietà o la Divina Commedia. Probabilmente sì, però. Ha percorso ogni palcoscenico con il suo tema della fame da ridere e mille altre componenti della nostra coscienza antica, della nostra memoria di sempre, non soltanto l’impulso a soddisfare i bisogni primari ma anche il rapporto tra le classi e l’eterna domanda sull’attinenza e il commercio tra la nobiltà dell’animo e quella del nome che il caso ti ha appioppato. Vedete un po’ che razza di mostro sacro la compagnia Teatro Sassari ha messo in scena ieri nel tutto esaurito Palazzo di Città di Sassari (ma chiamiamolo Teatro Civico, Sassari lo conosce così) per festeggiare i suoi quarant’anni di vita. Un successo di quelli che si ricordano, con la gente che aspetta gli artisti fuori del teatro, di notte, per continuare ad applaudirli e abbracciarli quando escono esausti con qualche sbaffo di biacca sulle guance e gli occhi ancora contornati dalla matita nera. Un pubblico festante che ti ringrazia per il capolavoro che hai saputo riproporgli con bravura. Cosa vuoi di più? “Miseria e Nobiltà” non a caso è stata scelta quale simbolo dell’anniversario della storica compagine teatrale e come ospite d’onore (21 e 22 ottobre al Parodi di Porto Torres) del cartellone dell’imminente Festival di Etnia e Teatralità, la prestigiosa rassegna annuale con la quale la compagnia presenta, oltre a produzioni proprie, una raffinata selezione dei palcoscenici italiani ed europei. Una serata trionfale, quindi, in cui si è da una parte giocato sul sicuro con la regia del grande Giampiero Cubeddu, ma dall’altra si è dimostrato che la Compagnia è un organismo vivo, che dalla sua storia trae esperienza ma che è capace di innestare la propria memoria in un contesto che cambia. Questa regia risale al 1983, quando la genialità di Cubeddu trasportò i temi universali di Scarpetta da una Napoli povera e ricca, anzi, arricchita, a una Sassari straordinariamente simile a quella Napoli e straordinariamente simile alla vera Sassari. Facendoci scoprire ancora una volta la koinè del teatro, specie di quello farsesco. E’ questa capacità che l’attore Mario Lubino, presidente della Compagnia, ha ereditato e adattato di giorno in giorno in maniera sempre diversa. A esempio riproponendo questa magistrale regia di Cubeddu con un nuovo coordinamento scenico di Alfredo Ruscitto, bravissimo attore, quest’ultimo (qui era un ottimo Marchese Ottavio Favetti), e bravissimo regista di alcune delle recenti produzioni di Teatro Sassari. Insomma, alla fine una macchina teatrale che ha spremuto sino all’ultima goccia ogni capacità, anche certe solitamente nascoste, di ciascun componente di questa formidabile compagine. A esempio, tanto per non cominciare con i personaggi e gli interpreti principali, devo dire che mi è venuta voglia di chiedere un bis a Pasquale Poddighe, il padrone di casa don Giovannino, alla ricerca degli affitti non pagati. Non un Benoit da Bohème, macchietta utile più che altro a farsi prendere in giro dagli inquilini poveri, affamati e morosi. Sarebbe stata una figura troppo banale. No, don Giovannino pensa a un pignoramento ma poi si guarda intorno, i muri vuoti e umidi, le sedie sfondate, la miseria, insomma, e si abbandona a un misurato elenco di ciò che vede, ironico e autoironico della sua funzione di padrone di casa, un piccolo monologo magistrale e sofferto che stride piacevolmente con la maschera solitamente burbera del bravo Poddighe. E il Pasquale di Michelangelo Ghisu? Una perfetta fusione tra il “tipo” da magazzeno sassarese e quello da sottano napoletano. Tracotanza e violenza da fame frustrate dalla fame stessa e da personalità più forti della sua. Ma dispostissimo a entrare disciplinatamente nella commedia della vita per rimediare un pasto completo. Un’entrata da applauso all’inizio del secondo atto, quando, impettito, imperioso e in cilindro bianco, varca travestito da benestante la porta dell’arricchito Gaetano. Bravissimo. Un allestimento in cui era evidente la cura del particolare allo scopo di rendere perfetto il travolgente effetto di insieme. A esempio all’inizio del primo atto ho tremato per la giovane Marta Pedoni, una Pupella per lunghi minuti in scena sola con due meraviglie di bravura e di esperienza quali Teresa Soro e Alessandra Spiga, intente a duettare magistralmente in un violento duello che avrebbe potuto travolgere la povera Pupella. Niente da fare. Marta Pedoni ha retto benissimo, rubando l’attenzione del pubblico anche a sé e al suo personaggio, furba vittima di fame e di amore. Il piccolo Andrea Riccio, quel Peppiniello che nella finzione a casa Semolone deve sempre assicurare di essere figlio del domestico Vincenzo (un ottimo, compassato Paolo Colorito), è una rivelazione. Non dico soltanto per il suo sassarese sicuro, fluente e, quando ci vuole, icastico; che parlato così da un bambino non lo sentivo da almeno trenta o quarant’anni. Ma soprattutto per la sua sicurezza sulla scena, senza sbavature, roba da professionisti. E qualcuno mi confida che ci ha pure preso gusto. Alla fine si è scoperto che aveva contato i suoi numerosi applausi a scena aperta misurandoli con quelli degli altri. Insomma, tutto il temperamento dell’attore vero. Emanuele Floris e Ignazio Chessa, rispettivamente Gaetano Semolone e Luigino, sono due caratteristi d’eccezione, entrambi alle prese con altrettante maschere (l’arricchito e il gagà) notissime, presenti in mille commedie e lavori cinematografici, e per questo più soggette a confronti che potrebbero preoccupare ma che entrambi hanno superato con successo. Perfetti anche la Gemma di Elisabetta Ibba, una inusitata e affascinante sciantosa made in Sant’Apollinare, il marchesino Eugenio di Claudio Dionisi e Gianni Sini con il suo domestico Biase. Un cameo è la Franceschina di Clara Farina, sicura, trascinante con il suo logudorese nel difficile contesto del sassarese partenopeo di questo straordinario allestimento. E infine i tre protagonisti in scena della storia del teatro sassarese: Mario Lubino, Teresa Soro e Alessandra Spiga. Lubino, cioè Felice Sciosciammocca, ha preso su di sé la maschera di Scarpetta, semplicemente un poveraccio che vive di espedienti. Ma da questo si pretende un’esplosione di trovate sceniche e verbali, un vortice che attrae il pubblico in un fascino magico e comico ma richiede di sfuggire ed esondare dai clichè alle volte troppo rigidi della maschera, richiede cioè invenzione sulla scena, capacità attoriali non comuni, quelle che Lubino ha dimostrato ancora una volta di possedere sino all’ultima, dal famoso e difficile ordinativo del pranzo da acquistare con i poveri indumenti da portare all’usuraia (l’isthruzzina), all’incontro da ubriaco con Franceschina-Clara Farina. Alessandra Spiga-Luisella ha giocato in maniera superlativa la sua parte di signora dei poveri, sfoderando un temperamento teatrale direi brechtiano, dove miseria e conflitti tra poveri e tra ricchi e poveri, vengono raccontati in una fusione con un grottesco e travolgente umorismo. Di grande piglio attoriale la scena in cui Luisella si finge moribonda essendo in realtà soprattutto infuriata con i complici e, come loro, affamata. E infine Teresa Soro, la perfetta Concetta di Scarpetta riletta da Giampiero Cubeddu. Beffarda e triste, una tigre rassegnata e feroce per difendere famiglia e dignità, furba e ingenua con la sua “cappellina” a simboleggiare i momenti nobili del suo pensiero e della sua azione. Anche Concetta dovrebbe essere una maschera fissa della farsa partenopea, ma Teresa Soro la plasma con il suo sfaccettato temperamento artistico sino a farne un personaggio completo e complesso. Si replica al Civico stasera e venerdì 17 e sabato 18 novembre.
La foto è di Michela Leo
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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