Capisci che nella vita non bisogna mai dare nulla per scontato quando constati che le posizioni di Marco Travaglio coincidono grossomodo con quelle di Vittorio Feltri, come sta più o meno accadendo in questo periodo. Ma capisci, semmai ce ne fosse bisogno, anche quanto il giornalismo graviti attorno al potere e quanto il potere sappia trasformare anche chi lo aveva sempre avversato. Passando oltre Travaglio, l’esempio che di questi tempi mi causa maggiore tristezza è quello di Andrea Scanzi, brillante opinionista de Il Fatto quotidiano e rockstar del giornalismo di casa nostra. Se c’è un padre dello slogan “E allora il Piddì?”, questi è Scanzi, uno che insegna musica, ciclismo, motociclismo, calcio e politica con la stessa sicurezza. È lui ad aver relativizzato ogni schifezza della politica portando ad unità di misura Renzi, classificato come il peggio assoluto al cui cospetto ogni altra colpa o dolo appaiono lievi. Una formula sempre molto in voga nelle sue invettive, anche oggi che il Pd e Renzi contano praticamente nulla, travolti dal loro stesso elettorato. La scuola giornalistica de Il Fatto, col direttore in prima linea, ha insistito per anni e con toni violentemente sarcastici sulla strategia del “parlare d’altro”, di cui venivano accusati i cosiddetti giornali di regime: inventare pericoli pubblici inesistenti o casi di nessuna importanza pur di distogliere l’attenzione da ben più importanti questioni politiche. Mi pare che lo slogan “e allora il Piddì?” – in questo momento in cui il Pd è un morto che si trascina – abbia esattamente la stessa funzione, anche se oggi ad usare questo strumento sono altri interpreti. Precisamente, quelli che una volta vedevano in quella pratica l’esempio dell’asservimento del giornalismo italiano. In questo periodo, Scanzi sembra perseguire un obiettivo specifico: cercare di far digerire Matteo Salvini e il popolo leghista all’elettorato dei Cinquestelle. In un post su Facebook di qualche giorno fa, ha imprecato contro la rappresentazione faziosa che i mezzi di stampa hanno fatto del raduno di Pontida, rammaricandosi della mancata analisi dell’intervento centrale di Salvini, secondo Scanzi ricco di spunti meritevoli di attenzione. In quello stesso post, Scanzi riconosce che la sottosegretaria alla Cultura che non legge un libro da tre anni non è una cosa edificante ma, aggiunge, tutto sommato non è un gran problema perché la scarsa attitudine alla lettura è un problema che riguarda la maggioranza degli italiani. L’importante, insomma, è rappresentare il popolo, anche se nelle sue più preoccupanti miserie. Io sono ancora convinto che un rappresentante delle Istituzioni che occupi cariche così importanti debba meritarsele con titoli e competenze; e sono anche convinto che la politica, per essere popolare, non debba necessariamente rincorrere il peggio. Io, da elettore, mi auguro che chi mi rappresenta ne sappia più di me, abbia visto più mondo di me e letto più libri di me. C’è, evidentemente, un senso di appartenenza a questa maggioranza, la convinzione da parte di alcuni giornalisti di essere stati soggetti attivi in questa rivoluzione della politica, che ora va difesa ad ogni costo. Però l’informazione non dovrebbe avere alcun ruolo politico. Questo, almeno, sostenevano quelli come Travaglio e Scanzi, quando sbeffeggiavano Repubblica e Mediaset, considerati uffici stampa del Pd e di Berlusconi. Chi ritiene Salvini una degenerazione della politica e lo considera un grave pericolo per la democrazia e per i valori della convivenza, non necessariamente lo fa perché ha la tessera del Pd o spera nella resurrezione di Renzi. No, la maggior parte di costoro combatte contro Salvini perché ritiene di avere dei valori da difendere e una coscienza da rispettare.
In un successivo post, a proposito della polemica grottesca tra Rita Pavone e i Pearl Jam, Scanzi tira le orecchie a Salvini accusandolo bonariamente di non capire nulla di musica e di travisare i testi delle liriche di Fabrizio De Andrè. Quel che mi colpisce è il tono di questi rimproveri. Il tono di un amico che sfotte un altro amico, ma in fondo gli vuole bene, lo ammira, lo sostiene nella sua battaglia personale. In questo modo di porsi di fronte alla politica, io non ci vedo nulla di diverso dai salotti con interviste allestiti da Bruno Vespa e Fabio Fazio, che tanta indignazione suscitavano. Qualcuno osserverà che Vespa e Fazio parlavano da una televisione pubblica, ma quando un giornalista scrive o commenta deve tenere fede alla deontologia della sua professione, indipendentemente dalla testa per la quale lavora. Un ciclo della politica e del giornalismo si è chiuso. Gli interpreti sono cambiati, le regole del gioco no.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo e-book "Cosa conta".
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