Passeggiare per Caprera significa stare in bilico.
In bilico tra comodità e natura, tra pantofole e trekking, tra colesterolo e circolazione sanguigna.
Staccarsi dal tepore di un pranzo post pasquale e andare a camminare, ha sempre qualcosa di eroico. Anche ora che (ormai dal 2002 a dire il vero), le strade principali dell’isola sono state asfaltate e vi portano la macchina all’imboccatura dei principali sentieri. Eroico, si, perché si lascia qualcosa di comodo per qualcosa di .. ehm… faticoso ma esteticamente ed eticamente superiore.
Divagazioni a parte, quel camminare sui bordi, a pochi centimetri da una macchia che a volte si apre a volte resta a portata di stringa o di manica di golfino penzolante dai fianchi, inestricabile, quel camminare sui bordi appunto, è sfiorare in qualche modo l’abisso. Tra quel mondo vegetale che fa a meno di noi, (pioggia o sole, freddo o caldo, buio o luce non cambiano questo stato di cose) e il nostro ciondolare pesante sull’asfalto, c’è qualcosa come milioni di anni di evoluzione: potremmo sopravvivere per settimane nei venti metri quadri composti dalla combinazione del nostro soggiorno più il bagno. In cinquecento metri quadri di campagna selvaggia, io credo, moriremmo in tre giorni. Forse cinque, a voler essere ottimisti.
Eppure è tutto così bello, così minuziosamente perfetto, così a portata di fotocamera, di condivisione e di likes. Ma non ci appartiene.
Può venir fuori un respiro profondo, proprio su un pensiero del genere: questa bellezza non ci appartiene. Sta qui per i fatti suoi e funziona (colori e profumi servono anche in natura per scopi riproduttivi) a prescindere dal nostro esser lì a camminare.
Fa sentire più leggeri, sentirsi ogni tanto estranei, non padroni, non ai vertici. Estranei, a mala pena accettati da tutta quella rete di relazioni per lo più invisibili.
Provate a chinarvi su un centonchio, il fiore della prima foto. O su una Evax, uno di quei grumi carnosi della seconda foto. Vi renderete conto di essere giganteschi e vi sentirete, ve lo auguro, inutili, per tutta la bellezza che vi state perdendo a furia di considerare solo esseri con cui vi accomunano la taglia, la lingua e le abitudini, comprese quelle sportive.
Provate a farla in questo periodo la passeggiata, scegliendo zone di macchia bassa e di piccole radure erbose. Provate a cercare, non dico tanto, due o tre diverse specie di orchidee. Se siete fortunati, e senza bisogno di averne mai viste, potrebbe capitarvi di trovarne anche sei o sette specie, tra orchidi, ofridi, serapidi e altri generi che qui compaiono con specie singole.
Oppure concentratevi sulle differenze tra i due tipi di giallo delle due ginestre più frequenti. Uno sembra oro, l’altro luce solare.
Dell’odore, invece, potreste anche non rendervi conto, a meno che non strofiniate volontariamente una lavanda o non vi stropicciate le mani in qualche mirto o in qualche lentisco. I miei preferiti sono altri, e ve li dico volentieri: uno è l’erba gatta (Teucrium marum), parente del basilico, del rosmarino e del timo. L’altro è il fiore della Stracciabraghe (Smilax aspera). Il primo piace solo a quelli un po’ strani, perché punge dentro il naso. E mi ricorda di quando ero piccolo. Punge veramente, è come un bacio che rompe i capillari. L’altro invece sembra il miele che si fa dal castagno. È profondo, rotondo, pastoso. E, come il primo, non si dimentica. E l’ho scoperto da grande.
La cosa brutta di tutto questo è che avete appena fatto in tempo ad abituarvi al silenzio, a smettere di controllare i pensieri, che qualcosa vi ricorda che dovete rientrare. Il tramonto è appena all’inizio, ci saranno almeno due ore di luce, eppure dovete salutare tutta quella pace e tornarvene da dove siete venuti.
Raggiungete la macchina, mettete in moto, partite. Ma non accendete la radio: la natura vi ha già sputato fuori da sé (o voi l’avete lasciata fare, è uguale), ma la radio no, non ancora, almeno. Aspettate di aver raggiunto la pineta della Marsala (si, quella a quattro zampe dello sbarco dei Mille), le cui ossa riposano accanto a quelle di un mio gatto e di vedere il mare dietro la curva. Sul rettilineo del ponte si può già mandare un po’ di musica, la prima che capita. A meno che non ci sia calma piatta. Allora meglio abbassare il finestrino e scorrere sul mare immobile (in automobile!). Dal G8 in poi non c’è neanche più il ponte di ferro e legno che faceva rumore quando lo attraversavi. Ora è tutto cemento e asfalto. Prima c’era questa specie di ghigliottina acustica, che se eri distratto ti avvisava che stavi entrando a Caprera o ne stavi uscendo. Ora invece passi da una parte all’altra senza suoneria. Non so dire se sia meglio o peggio. Non il ponte in sé, quello è decisamente migliorato, ma quel rumore che faceva da campanello. Una cosa da nulla che però faceva da richiamo e avvisava: dentro-fuori-dentro-fuori-dentro-fuori.
Forse meglio così. Non c’è più la soglia che ti dice: “Attento, stai per sfiorare quell’abisso verde così gradevole e così estraneo” oppure, “stai per tornare al tuo calduccio, al tuo rifugio impermeabile, alla tua vita normale”. Si, meglio così. In questo modo sarà più facile vedere Caprera solo come il cortile di casa, ma sarà più facile anche portarsela dietro, lasciarla avvicinare, cercare di capire cos’è quella soglia che sembra solo un bordo di asfalto, cos’è quel mondo verde e intrecciato che ci minaccia con le sue spine e ci incanta con il suo profumo.
E cosa siamo noi, che ogni tanto abbiamo bisogno di affacciarci su quell’abisso, per respirare un po’.
Nacqui dopopranzo, un martedì. Dovevo chiamarmi Sonia (non c’erano ecografi) o Mirko. Mi chiamo Luca. Dubito che, fossi femmina, mi chiamerei Sonia. A otto anni è successo qualcosa. Quando racconto dico sempre: “quando avevo otto anni”, come se prima fossi in letargo. Sono cresciuto in riva a mare, campagna e zona urbana. Sono un rivista. Ho studiato un po’ Filosofia, un po’ Paesaggio, un po’ Nuvole. Ho letto qualche libro, scritto e fatto qualche cazzata. Ora sto su Sardegnablogger. Appunto.
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