Stasera Servizio Pubblico di Michele Santoro manda in onda un’intervista ad una ragazzina di un campo Rom di Roma. Secondo l’autrice, è la stessa ragazzina già intervistata da un talk show di Canale 5, la settimana scorsa. Per capirci, quella che raccontò di guadagnarsi da vivere rubando fino a mille euro al giorno, vittime preferite le vecchiette. “Tanto devono morire”, si giustificò provocatoriamente la ragazzina. Ora, al microfono dell’inviata di Santoro, la piccola Rom ha ritrattato, sostenendo di essersi inventata tutto in cambio delle venti euro offerte dalla giornalista di Mediaset. Ha aggiunto di avere parlato a vanvera perché sotto gli effetti della marijuana.
Io non so quale sia la verità e nelle osservazioni che seguono non prenderò neppure in considerazione l’idea che l’intervista sia stata estorta con un compenso: fosse avvenuto realmente, è ovvio che si tratterebbe di fatto gravissimo. Sono però convinto che un’informazione responsabile non avrebbe mai mandato in onda la prima intervista, quella che ha scatenato il caso. Ho usato l’aggettivo “responsabile”. Senza entrare nel merito delle capacità professionali, se un giornalista non ha piena consapevolezza degli effetti che la sua azione produce sulla società non può esercitare la professione. Se questa consapevolezza e l’ha ma vi antepone l’ambizione, peggio ancora. Veniamo al dunque.
Prima obiezione. I giornalisti sono tenuti a rispettare la Carta di Treviso, un codice di comportamento che prevede tutta una serie di tutele per i minori. Non basta oscurare il volto della ragazzina per difenderla da quella macchia che, probabilmente, si porterà dietro per tutta la vita. Il fatto stesso che sia stata riconosciuta e rintracciata dimostra come in tanti ne conoscano l’identità.
Seconda obiezione. Una minorenne chiaramente alterata quanto può contribuire alla missione della verità che dovrebbe animare ogni giornalista? Quanto può essere credibile una adolescente che sostiene di rubare mille euro al giorno? Può essere fonte attendibile un ubriaco che sproloquia? Serve, questa testimonianza, all’informazione pubblica?
L’intervista era stata mostrata su uno dei tanti salotti Mediaset dedicati al razzismo e non è stato affatto un caso che, tra gli ospiti, comparisse Matteo Salvini. Un assist per il segretario della Lega, posto nella condizione ideale per ripetere tra gli applausi i ben noti concetti che sostengono al sua azione politica.
È chiaro che il razzismo è una merce. Serve a fare ascolti e a vendere pubblicità in televisione, serve ad assecondare l’odio che orienta il gradimento politico di una crescente parte di italiani. A volte questi due interessi coincidono. Mediaset deve fare ascolti e vendere pubblicità, ma è anche la voce di riferimento di un’area politica che vede nella xenofobia di Salvini un punto chiave della propria propaganda politica. Voti&Affari.
Ma il giornalista, da queste logiche, dovrebbe restare fuori. Dovrebbe capire che il proprio lavoro non può essere strumento di interessi che non siano la libera informazione, dovrebbe sapere che alimentare l’odio non serve a nessuno. Specie se certe notizie sono in realtà merce avariata. Quell’irrisolto conflitto di interessi potrebbe essere, in parte, superato. Se solo chi ha il delicato compito di fare informazione fosse, semplicemente, responsabile e tutelato. Messo in condizione di svolgere il proprio compito senza l’obbligo dello scoop, senza linee editoriali da sposare per fare carriera, senza l’assillo di veder rinnovato il proprio contratto da precario.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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