Quando Fabrizio De Giovanni ha parlato della controriforma del ’93, quelle nuove regole per le banche che tra le altre cose – dice l’attore – “spazzavano via” il loro ruolo di promozione dell’economia nei rispettivi territori, ho pensato al Banco di Sardegna. Cioè al mio vecchio Banco di Sardegna, quello al quale, in un atto di fiduciosa intensità esistenziale, quarantacinque anni fa affidai il mio primo stipendio e poi tutti gli altri. Ho pensato a come mi permise di comprarmi una casa e a come mi aiutò a ricostruirla quando venne devastata da un incendio. E mi sono chiesto, mentre il monologo sul palcoscenico del teatro Verdi già scivolava verso altre vite diversa dalla mia, cosa sia rimasto del mio vecchio Banco e della sua centralità nello sviluppo della Sardegna, ora che l’ultimo lacerto di quell’antico istituto è un marchio posseduto da una banca emiliana. Prevarrà il profitto meccanico? Simile _ diceva ancora De Giovanni – a quei droni senza pilota ai quali persone che stanno dall’altra parte del mondo ordinano con un tasto di sganciare distruzione. O prevarrà alla fine, nel mio vecchio Banco, l’antica missione di attore di sviluppo?Pensavo a tutte queste cose molto personali e le dico soltanto per dimostrare che questo “Sbankati. Speculazione e crisi economica spiegate a mio figlio” (portato a Sassari dalla Cooperativa Teatro e/o Musica) scritto dallo stesso De Giovanni e da Ercole Ongaro, con la regia di Felice Cappa, è uno spettacolo che sul piano delle emozioni funziona molto bene se riesce a impressionare gente che come me pascola per mestiere ormai da anni e annorum sui temi della finanza padrona del mondo dopo avere soppiantato altre categorie quali l’economia complessa, il lavoro, lo sviluppo, gli equilibri sociali e geopolitici. E se non bastasse il modesto esempio individuale della serata al Verdi, vi dico che al matinée per le scuole alcune centinaia di studenti delle superiori erano rimasti inchiodati alle sedie in silenziosa attenzione, per novanta dico novanta minuti, mentre Fabrizio De Giovanni parlava di banche e di finanza con l’unico aiuto scenico di una scrivania e di uno schermo dove di tanto in tanto qualche vittima del sistema sotto accusa raccontava la sua storia.“Teatro civile”, lo definisce l’attore in una intervista dove racconta del suo radicale cambio di vita professionale, quando passò a questo genere dopo anni di doppiaggio di cartoon e telefilm: “Pappagallo di concetti non condivisibili, utili a vendere merendine e giochi, mentre io non volevo che mia figlia, quando un giorno avesse sentito la mia voce, pensasse che suo padre ripeteva stronzate”.Teatro civile, quindi, che significa spettacolo su temi di attualità, cioè la forma più vitale e innovativa del teatro italiano di questi anni. E, nel caso di De Giovanni, una degna e diretta derivazione del grande teatro di narrazione di Dario Fo, quello a esempio di “Mistero Buffo”, o di “Guerra di popolo in Cile”, spettacolo durante il quale Fo venne arrestato nel 1973 qui a Sassari, al cinema-teatro Rex, e passò una notte in cella a San Sebastiano, mentre fuori migliaia di persone, in uno straordinario blocco democratico che cambiò il percorso politico di un grande pezzo di società sassarese, occupavano strade e piazze per chiederne la liberazione.Credo ci sia più di un’eco di questa immensa tradizione nel teatro di De Giovanni, che riesce a turbarti mentre parla di mutui e di agenzie di rating.D’altro canto la sua scuola è stata quella. Ha lavorato con Fo e con Franca Rame e dal 2005 ha preso parte a tutte le loro produzioni. E lo stesso Fo ha più volte espresso apprezzamento per i lavori di De Giovanni con la compagnia Itineraria Teatro, dove figura tra i fondatori.E’ vero che il sistema finanziario è il grande colpevole di questa crisi sociale, umana, economica ed ecologica che il mondo attraversa? Non credo sia questo il punto. Credo che il solo fatto di sapere porre il problema con questa efficacia, di incidere il quesito nelle coscienze degli spettatori, sia il metro per misurare la forza e il successo di questo spettacolo. Pensate a Shylock, per esempio. A come ancora oggi, dopo più di quattrocento anni, dal palcoscenico chieda alla platea: “Un ebreo non sente caldo o freddo nelle stesse estati e inverni allo stesso modo di un cristiano? Se ci ferite noi non sanguiniamo? Se ci solleticate, noi non ridiamo? Se ci avvelenate noi non moriamo?”. Ed è un manifesto antirazzista più eloquente di mille articoli di fondo e di mille raccolte di firme di intellettuali. E’ teatro. Lo puoi chiamare come vuoi ma è quello: il modo più antico e più bello in cui pochi possano comunicare qualcosa a tanti, come sa fare Fabrizio De Giovanni.
In alto, nella foto di Michela Leo, un momento dello spettacolo.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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