Noi eravamo lì. Con le facce strane, tirate, tra il caldo e la birra. Eravamo tra il divano e il tavolo rotondo, nel tinello di casa mia, con al centro una tovaglia ad uncinetto. Bianca. Eravamo lì, con le unghie pronte ad essere abbandonate da dita sempre più nervose e mani pronte ad urlare di gioia o di disperazione. Eravamo lì a guardarci quella finale, che non accade mica sempre di finirci da quelle parti e arrivare secondi non serve. Lo sapevamo e lo sapevano anche loro: i giocatori. Eravamo lì, quelli che Paolo Rossi era un ragazzo come noi, che aveva infilato tre reti al Brasile e due alla Polonia. Ne mancava una. Poteva farla. Doveva farla. Eravamo lì quando Antonio Cabrini con gli occhi del bel ragazzo, lo sguardo del bel ragazzo, quello che ci faceva incazzare abbastanza perché era forse troppo un bel ragazzo. Insomma: eravamo lì con il cuore tra le mani che pulsava e ondeggiava quando tirò quel rigore – ma poi, perché lo tirò proprio lui quel maledetto rigore? – Eravamo lì a guardarci in faccia, a non parlare, a non urlare, a respirare piano, manco fossimo nella cantina cantata da Lucio Battisti nella canzone del sole. Eravamo lì, pronti, decisi, convinti che quel pallone sarebbe entrato dentro la porta dei crucchi. Poi chissà perché, chissà cosa diavolo è successo. Il bell’Antonio sbaglia, manca il vantaggio. E noi eravamo lì con lo sgomento dipinto nelle facce a pensare che adesso il destino avrebbe dipinto un’altra storia. Perché gol mancato significa gol fatto. Per gli altri. Lo abbiamo pensato. Cazzo se lo abbiamo pensato. Poi ci siamo guardati in faccia e qualcuno ha detto: “Non si vince una finale di un mondiale con un rigore”. Mica era vero. Però ci faceva comodo. E in sottofondo, dentro le nostre teste passava il Principe: “Antonio non aver paura di sbagliare un calcio di rigore, non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore”. Eravamo lì ad urlare insieme a Paolo Rossi. Gol. Poi Tardelli. Gol. Poi Altobelli. Gol. Bastava. Si, bastava. Eravamo lì, a guardare ed osservare quelli della leva calcistica che sollevavano la prima coppa del mondo del dopoguerra. Eravamo lì l’11 luglio 1982. E la canzone di De Gregori rappresenta per me il tinello, il centrino ad uncinetto, una televisione bombata e gli occhi di tutti i miei amici. Alghero, la festa e la coppa del mondo. Non avevamo vinto niente ma avevamo vinto tutto. Perché eravamo li, ad abbracciarci. E non era poco.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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