Ci sono due modi di portare Mary Poppins a teatro. Dico la tata magica di Disney. O vai sul sicuro con una riduzione onesta che parte da “Basta un poco di zucchero” e senza troppi grilli per la testa arriva sino a “Due penny ti fanno comprar”, passando per “Supercalifragilistichespiralidoso” (ma senza soffermarsi troppo su questa parola straniante che strizza un po’ l’occhio alla cannabis). E il successo è assicurato. Oppure rischi qualcosa facendo quello che Disney non fece: cioè attingere al fascino un po’ inquietante della Mary originale, quella dei romanzi di Pamela Lyndon Travers, personaggio che non è proprio una strega ma che ha di tanto in tanto qualcosa di perfido.
Puoi infine scegliere una difficile e talentuosa via di mezzo, come ha fatto Claudio Dionisi in questo suo “Finché non cambia il vento. Il musical di Mary Poppins”, prodotto dalla compagnia 7 in Valigia e rappresentato a Sassari in un teatro Verdi esaurito, colmo di gioia, risate e applausi.
Via di mezzo perché il regista e autore dei testi non ci ha privato della malia connaturata nella versione Disney, sarebbe da stupidi rinunciarci: come cancellare Romeo, perché sei tu Romeo dal dramma scespiriano soltanto per volere fare gli originali. Però non si è arreso al mistero dell’arrivo e della partenza di questa fata post vittoriana e ha scoperto che è una viaggiatrice del tempo. Già, appartiene al mondo del doctor Who, uno dei time lords (nel suo caso sarebbe una lady) della serie tv di fantascienza più longeva della storia. C’è un background reso noto soltanto agli attori dove Dionisi spiega minutamente il suo prequel di questa misteriosa comparsa di Mary Poppins in casa Banks, con tanto di Tardis, la macchina del tempo, e cacciavite sonico, attrezzo che compare in questo musical tra le citazioni alle volte scoperte e alle volte nascoste di questa bella e talvolta struggente commistione tra magia e fantascienza.
Per cui, come in ogni grande opera per l’infanzia, anche in questa Mary Poppins di Dionisi ci sono due livelli di lettura. Quello dell’evidenza, comunque godibile, e uno più profondo, da indagare, se ne avete voglia, correndo lungo un filo fatto di misteriosi personaggi, singolari allusioni e persino di evidenti riferimenti a una Mary Poppins abbastanza carnale, persino a un suo legame con Bert appena più concreto, un filino più passionale, di quello asessuato della versione Disney.
E comunque, che sia Disney o una sua intelligente rivisitazione, mettere sul palco poco meno di cento persone tra attrici e attori, ballerine e ballerini, dando al pubblico non l’impressione di un casino con papazum da “Aida” alle Terme di Caracalla , ma di un ordinato e gradevole movimento di singoli e di masse, senza sfasature, con un ordine che rende facile la lettura di ogni momento scenico e narrativo, be’, insomma, è roba da professionisti.
Soprattutto se pensi che tra quei quasi cento ci sono una trentina di bambini delle scuole di danza e che Dionisi ha quindi dovuto amalgamare, in questo complesso spettacolo, un livello altamente professionale di recitazione, di canto e di danza dell’ensemble adulto (ottime coreografie di Margherita Massidda e Laura Deriu) e uno irresistibilmente acerbo, da festoso saggio di fine anno, degli oltre trenta bravissimi componenti del Piccolo corpo di ballo.
Cioè, a dire il vero c’erano due bambini anche nell’ensemble degli adulti, cioè Maria Secchi e Andrea Riccio, che interpretavano Jane e Michael, i figli di mister Banks. Andrea Riccio ormai è un attore consumato, se gli dici che sta imparando il mestiere ti sembra di offenderlo: sicuro in scena, efficace, attento a non strafare riesce però a mantenere il suo ruolo in ogni momento di questa affollata rappresentazione. E altrettanto Maria Secchi, immersa nella parte della figlia che scruta e ricerca, senza saperlo, l’inconscio del suo insopportabile padre. Interpretato, quest’ultimo, dalla stesso Claudio Dionisi, davvero bravo nel cammino del robot bancario verso la metamorfosi in homo felicemente ridens. Accompagnato nel percorso da una efficace signora Banks interpretata da Antonella Putzulu.
Mary Poppins era Margherita Massidda, attrice, ballerina, cantante. Insomma, quella che nel musical italiano si chiamava soubrette. E si potrebbe pensare che, se le chiedi troppo, in una delle tre specialità ci possa essere qualche inevitabile défaillance. Non è stato il caso della Massidda: dai dialoghi e piccoli monologhi di una parte attoriale con molte punte di difficoltà, specie nella resa del comico (genere sempre arduo) o del sentimentale, sino a certe complicate coreografie e all’esecuzione dei brani canori classici (notissimi, e quindi con un pubblico pronto a confrontarli con le più conosciute interpretazioni sul mercato) l’attrice ha sempre dato il meglio. Come anche Stefano Dionisi, un ottimo Bert nei suoi apparentemente sbracati balzi da suonatore ambulante, ma in realtà abile e compostissima resa gestuale di un personaggio piuttosto complesso, nella versione che il regista ha voluto darne. Il Bert di questo musical affonda le sue radici nello stesso mondo-tempo da cui viene Mary Poppins e ogni tanto l’allegria della musica, dei dialoghi e della coreografia vira verso una misteriosa malinconia per una dimensione mai del tutto evocata e resa magistralmente da Stefano Dionisi.
Marta Pedoni era Ellen, una delle due domestiche di casa Banks. Una parte, si direbbe, non tra quelle principali. Eppure questa giovane attrice, sempre più matura, è riuscita nell’accuratezza della sua recitazione, nell’elegante attenzione per ogni particolare di parola, movimento ed espressione a ritagliarsi uno spazio di evidenza, di riconoscibilità. Brava anche Lisa Marzeddu, Clara, l’altra domestica.
Vanno inoltre citati Carla Fancello, Mauro Arghittu, Andrea Garrucciu (un bravissimo ammiraglio Boom), Marco Pittau, Fabio Masala, Michele Fois e Miriam Niedda.
Costumi e scene di Fabio Loi, audio di Eliana Carboni, luci (magnifiche) di Tony Grandi, basi originali di Simone Dionisi, fondali animati di Alessio Pedoni.
Un commento. Bambole, non c’è una lira. Per il teatro non si batte chiodo. A forza di riscrivere le grandi opere tagliando parti per risparmiare soldi, tra un po’ vedremo l’Amleto sotto forma di monologo: con la testa di morto che parla, perché il principe triste costa troppo. Figuriamoci per la rivista: la Gatta Cenerentola ora sarebbe in orfanotrofio per risparmiare sulla matrigna. Tanto di cappello quindi alla Compagnia 7 in Valigia che (con l’affettuosa collaborazione della Cooperativa Teatro E/o Musica, che gestisce il Verdi) mette quasi cento persone in scena in maniera altamente professionale e riempie di pubblico un grande e bellissimo teatro, ripagandosi, da quanto so, più o meno con gli incassi del botteghino.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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