Ricordo che, non molti anni fa, poco prima che iniziasse la crisi, avendo necessità di far riparare una giacca, ho girato per ore nella mia città alla ricerca di un sarto. Quello di fiducia era morto qualche anno prima e con lui se n’era andata anche la piccola bottega a due passi dalla piazza principale, una stanzetta in perenne disordine e piena di indumenti di ogni genere e colore. Nessuno dei suoi figli aveva deciso di affidare le proprie sorti a un metro, un paio di forbici e una macchina per cucire. Ho girato la città in lungo e in largo, ho domandato a parenti, amici e passanti finché non mi è arrivata la dritta giusta.
“Prova lì all’angolo, sulla via per la stazione, se sei fortunato lo trovi”. Sono fortunato. Il portoncino in legno masticato dal tempo è semiaperto. “E’ solo per caso che mi trova qui” mi dice il vecchio che mi accoglie. Mi spiega che da tempo ha deciso di smettere di lavorare; non vale la pena, ci sono sempre meno clienti e il poco che si guadagna se lo mangia lo Stato con le tasse. “Sa che è tutto il giorno che cerco un sarto?” gli domando. E a me stesso domando come abbia fatto a non accorgermi di questa repentina estinzione delle sartorie. Il vecchio accetta, comunque, di riparare la mia giacca. “Ma sia chiaro – specifica – niente di ufficiale, anzi non lo dica a nessuno che io, qui, ci torno ogni tanto e più che altro per nostalgia”.
Qualche anno dopo, anche nella mia città, sono cominciate a spuntare nuove sartorie ma in un’altra forma. Sono arrivate quelle in franchising, nate sulla scia dell’impoverimento che si registrava nel Paese che invitava tutti a riparare anziché buttare e ricomprare. E poi le sartorie cinesi dove fanno di tutto a poco prezzo. In una di queste ho visto un‘intera famiglia all’opera, madre e due figli, uno alla macchina per cucire e l’altro, il più piccolo, a consegnare la roba pronta ai clienti. E ho pensato che, nella loro visione quasi maniacale del lavoro e spesso inaccettabile per i nostri costumi, c’è anche qualcosa su cui dovremmo riflettere, qualcosa che stiamo perdendo.
Tre anni fa l’associazione degli artigiani di Mestre ha stilato un elenco dei mestieri che si estingueranno nel giro di dieci anni. Ci sono i tappezzieri, i liutai, i calzolai e pure i sarti. Io ci metterei pure i giornalisti ma nell’elenco non figurano. Le cause? Manca il ricambio generazionale. E poi la burocrazia, le tasse, tutta quella sovrastruttura insostenibile che anziché invogliarti a intraprendere un’attività artigianale ti fa propendere per accantonare l’idea e mandare tutto al diavolo. Come il sarto che andava in bottega ogni tanto, solo per nostalgia.
Io, a dire il vero, non credo che certi mestieri si estingueranno. Mi piace pensare che al culmine di questa avanzata tecnologica che investe la società con la forza di un ciclone ci sarà un’onda contraria che ci porterà ad avere voglia di manualità e talento, di sudore e di genio, di oggetti non solo utili ma anche belli, di aprire la porta della bottega di un vecchio sarto e trovarci qualcuno più giovane che gli assomiglia molto.
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