Soldati sardi dispersi ovunque. Una diaspora mondiale, forse ancora oggi incalcolabile. Dispersi in Russia, prigionieri in Sudafrica, in Egitto, in Kenya e in India, mimetizzati tra i boschi delle valli toscane e piemontesi, quando la coscienza impose loro la lotta partigiana.
Soldati sardi scaraventati da un giorno all’altro nel deserto di un Continente nero e lontano, tra Rommel e Montgomery nel fragore dei mitragliatori ad El Alamein, senza aver mai visto un aereo o una nave prima di allora, senza mai essere andati oltre l’Ogliastra fino allora.
Soldati sardi reclusi in un campo di concentramento dell’altro emisfero per cinque anni, con un solo pantalone e una sola camicia per cinque anni, con cinque righe di lettera alla famiglia, una all’anno. Soldati sardi che impararono l’inglese dai loro carcerieri, soldati sardi che in India strinsero la mano al Mahatma Gandhi. Soldati sardi che tornando a casa, inattesi, trovarono le donne di famiglie nere di lutto. Soldati sardi cui nessuno ha intitolato una via e la cui memoria sarebbe andata dispersa nel nulla, se qualcuno non avesse avvertito l’urgenza di trascrivere la loro testimonianza.
“La chiave dello zucchero” di Giacomo Mameli, uscito per le Edizioni Il Maestrale, è la somma di tante storie umane mescolate nella follia della Seconda Guerra. Alcune raccontate a suo tempo dai protagonisti e annotate da quel formidabile cronista che è Giacomo, altre ricostruite attraverso voci e scritti di chi conobbe quei sardi mai tornati a casa. Specie quelli che sposarono la Resistenza, pagando l’ideale con la vita. Storie partite dalla Sardegna o annodate alla Sardegna da vincoli familiari. Storie che un ragazzo di oggi stenterebbe a credere possibili, come stenterebbe a credere possibile che il lusso di uno zolletta di zucchero, ai tempi, meritasse la tutela di una chiave.
Giacomo le racconta col suo stile asciutto, frenetico, profondamene indagatore – sembra proprio di vederlo, Giacomino, in quello scrivere pressante e dettagliato che lo fotografa fedelmente – e per lunghi brani le serve al lettore dalla visuale soggettiva del protagonista, che narra in prima persona, rispettandone lessico e posture. So benissimo che sto per dire una cosa banale e già scritta centinaia di volte da titolari di pensiero molto più autorevole del mio. Però il sacrosanto tentativo di ricostruire la storia della nostra Isola dovrebbe prevedere che un documento come “La Chiave dello Zucchero” sia oggetto di studio, per gli alunni cui si somministra in maniere spesso blande e schematiche la Storia Contemporanea. La Storia contemporanea l’hanno fatta anche i sardi, spesso col sacrificio estremo. Nelle Storie di Egidio Lai di Perdasdefogu fatto prigioniero ad El Alamein, di Francesco Cossu di Ulassai che innescava mine in Tunisia, di Iolando Fosci che da soldato si finse sordo in Toscana dopo aver visto il massacro dei bombardieri alleati a Gonnosfanadiga, in tutti gli altri ritratti di questo libro c’è racconto, saggio, investigazione. Ma alla fine è come sentire le memorie dei nostri vecchi, davanti al focolare o sotto il campanile in piazza di chiesa. Qualcosa che ci appartiene, per vincolo di sangue e prossimità fisica e culturale. Traggo dal primo capitolo del libro: “In quell’inferno dell’Africa più vicina all’Italia io, Lai Egidio di Saverio e di Piroddi Fortunata, nato a Villasalto il 25 giugno del 1920, ero soldato matricola 9664 del 65.mo Reggimento Fanteria per la compagnia autocarrata 101-109, prima di cadere prigioniero di guerra degli inglesi nella zona di El Alamein, combattendo tra le colline di Sidi Abdar-Raham e il fosso grande di Al Qattara. Dopo la battaglia, dopo tanto sangue, dopo tante urla e pianti, ero diventato POW, Prisoner of War Arm T 25647, soldato fante numero 133 del Camp Horthumberland dell’Inghilterra. Al campo di prigionia ci arrivo il 2 gennaio 1946 dopo aver vagato per mari e oceani, in camion, in treni e in piroscafi con mare calmo e mare in tempesta, dopo aver dormito in capannoni pieni di mosche, pulci e di scorpioni. Ero stato anche in un campo di prigionia in Sudafrica, a Zonderwater, ho letto che è stato «il più grande campo di prigionia costruito dagli alleati durante la seconda guerra mondiale». Costruito a 43 chilometri da Pretoria”. Dimenticare sarebbe mancare di rispetto alla memoria di questi sardi. Una memoria che abbiamo il dovere civile e storico di riscoprire, anche dedicandole vie e piazze.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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