“Sono orgoglioso di essere sardo!”
Quante volte l’abbiamo sentito?
Una frase apparentemente senza senso: cosa ci sarebbe di cui andare orgogliosi nel fatto di essere nati in Sardegna?
Invece è una frase densa di significati.
Chi conosce i sardi sa che quella frase significa “Non mi vergogno di essere sardo, malgrado tutto quello che dicono di noi.”
L’orgoglio è un sentimento difensivo e i sardi, in quel senso, hanno avuto per oltre un secolo–almeno dall’unità d’Italia–motivo di provarlo.
Sono passati solo pochissimi decenni (20 anni?) da quando i sardi venivano dipinti dagli italiani come (potenziali) sequestratori e “sbudellatori di pecore e di uomini”: cito a memoria da una articolo di Repubblica dei primi anni Novanta, se ricordo bene.
Ancora nel 1994, l’antropologo olandese Peter Odermatt scriveva: “Per gli italiani il folkore è sintomatico dell’immagine di una Sardegna anacronistica che hanno dell’isola. Ancora negli anni ’70, sia i politici che i mass media descrivevano uno scenario di caos e di arretratezza. Nell’Italia odierna la Sardegna viene ancora vista come una terra di pastori e di banditi.”
Insomma, l'”orgoglio” dei sardi è stato bene alimentato dagli italiani fino ad almeno una ventina di anni fa.
Ovviamente, questo “orgoglio”, nato dalla vergogna apparentemente negata, non è passato senza conseguenze.
Come reazione alla vergogna, abbiamo visto l’idealizzazione di questa “arretratezza” portata avanti da intellettuali più o meno sardi, come Grazia Deledda, Wagner e Lilliu, che hanno diviso i sardi in “buoni”–cioè arretrati–e “cattivi”–cioè non arretrati e quindi “traditori” e “bastardi”.
Tutta la cultura sarda ufficiale e la sua interpretazione da parte dei media tradizionali è basata su questa partizione.
La prima a fare propria questa suddivisione è stata ovviamente la borghesia urbana, che già conosceva una lunga tradizione di disprezzo dei biddunculus.
In seguito, questa visione della Sardegna è filtrata, soprattutto attraverso la scuola e i media, in tutta la popolazione.
Orgoglio ostentato per le idealizzazioni del passato e vergogna praticata rispetto al presente.
I sardi oggi sono tutti orgogliosissimi dei nuraghi e della “costante resistenziale dei veri sardi”–oggi rappresentati dai giganti–e perfino de “banditi di una volta”–c’è cascato perfino Gramsci–purché si tratti di cose relegate ad un passato remoto e idealizzato: esattamente l’operazione portata avanti nella sua opera da Grazia Deledda.
Per il resto–ma il fenomeno è globale–hanno mollato praticamente tutto le pratiche, i comportamenti, che li identificavano come sardi.
È rimasta praticamente solo la cucina a rendere sardi i sardi, ma anche qui c’è da dire che i sardi ormai mangiano globalizzato e che perfino il pane carasau ha oltrepassato il mare: mia figlia se l’è visto servire in un ristorante olandese, questa domenica scorsa.
Con tutto il loro “orgoglio”, i sardi non hanno conservato praticamente nulla di ciò che li identificava come sardi.
Non il costume, ovviamente, visto che quello rappresentava un’identità collettiva–di tutto un paese–ed è quindi diventato incompatibile con l’individualismo che costituisce la base della personalità di noi “moderni”.
Non la lingua, almeno intesa come “lingua normale”, quella in cui si fanno le cose “normali”.
Pochissimi sardi sono ormai in grado di usare il sardo per parlare di qualsiasi argomento.
Come aveva previsto Nino Gramsci, la loro lingua si è ridotta a un gergo sgangherato almeno quanto il loro italiano.
E questa–sia ben chiaro–non è stata una fatalità, ma il risultato del tradimento degli intellettuali, che–anche loro devono mangiare–non hanno aggiornato i registri e il lessico del sardo, preferendogli l’italiano.
Insomma, l’orgoglio sventolato per il passato e la vergogna praticata nel quotidiano.
Adesso a dare un’identità ai sardi c’è rimasto praticamente soltanto l’italiano scarciofato di Sardegna, quello che li identifica piuttosto come sardignoli, italiani della periferia più estrema.
I sardi continuano a essere orgogliosi, anche se nessuno sa più di che.
Contenti loro, contenti tutti.
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