“Sardegna come infanzia”: chi l’ha letto? Il titolo l’hanno pensato alla Mondadori–che evidentemente già si preparava all’arrivo di Berlusconi.
Il titolo originale del libro di Vittorini era–infatti non era originale abbastanza!–“Viaggio in Sardegna’: le solite coglionate sentimentali degli Italiani che scoprono i Baluba, ma senza rischiare di essere mangiati dai leoni.
Mi sono rimaste tre cose di quel libro: lo stupore di Vittorini per il Cinese che vendeva cravatte a Tempio –ovviamente, il Cinese oggi se la ride di brutto: chi ragiona in termini di 5.000 anni di storia sa quanto sei scemo tu a sorprenderti che sia stato lui a precederti; il vecchio seduto sulla sedia a sdraio sulla spiaggia di Torre Grande: cioè il suo stupore, perché ai miei tempi era ancora possibile essere gli unici esseri umani su una spiaggia; il “colore osceno” delle sughere galluresi appena scorticate.
Quel colore–da ragazzo–lo chiamavo “rosa mutanda”, perché c’erano delle vecchie che stendevano delle mutande di quel colore, anziché lo standard bianco. Penso che il nome tecnico del colore, nell’industria tessile, sia “nudo”.
“Sardegna come infanzia” precede di poco “Banditi a Orgosolo” di Cagnetta e il magnifico film razzista, ma esilarante, “Una questione d’onore”.
Esilarante perché è così stupidamente razzista che bisognerebbe proiettarlo in tutte le scuole della Sardegna per curare i bambini Sardi da ogni sintomo di Italianità. La morale sarebbe: “Se pensavate che gli Italiani siano diventati razzisti solo dopo l’arrivo di Bossi, vi siete sbagliati di brutto!”
Tutte queste coglionate hanno in comune la visione razzista della Sardegna come terra ferma nel tempo.
I Sardi sono ancora talmente traumatizzati–in modo positivo o negativo–dall’imbecillità dei loro coglionizzatori che o credono alla coglionata o la ribaltano di 180 gradi.
Infatti vediamo proporci come alternativa alla Sardegna immaginata dall’imbecillità italiana, una Sardegna senza passato, senza lingua sua, senza cultura propria: una Sardegna immersa in un eterno presente, proprio come una una persona affetta dalla sindrome di Alzheimer.
Una Sardegna senza memoria di se, sarebbe ancora Sardegna?
Certamente!
Ma solo come espressione geografica.
Questo vecchio articolo ha quasi 5 anni di età.
L’ho scritto in polemica con Omar Onnis, che allora conviveva nell’IRS con quelli che adesso sono suoi e reciproci nemici: Gavino Sale e Franciscu Sedda.
C’est la vie!
Omar Onnis ha modificato parecchio le sue posizioni sulla lingua e gliene va dato merito, anche se non ha ancora perso il vizio di fare il saputello.
Gli auguro di farsi passare anche quello, perché avremmo tutti da guadagnarci da un incremento della sua umiltà.
La testa, infatti, non basta avercela, ma bisogna anche saperla usare.
Bo’ de aici!
La Sardegna come Alzheimer, dicevamo.
La Sardegna nella visione di molta gioventù sarda “progressista”, quella che allora si raccoglieva in buona parte attorno all’IRS.
Ma anche di quella della gioventù “de sinistra”.
Una Sardegna senza la dignità di un passato e di un’identità.
La Sardegna da cui fuggono, con quel passato sardo che Lilliu aveva mutuato dagli Italiani e che consisteva di centinaia di migliaia di giorni identici l’uno all’altro, era anche quella sprofondata nell’Alzheimer.
Quelle due Sardegne sono immagini speculari l’una dell’altra.
Troppi sardi cercano di sfuggire a quella Sardegna, sprofondando, invece, in un eterno presente senza fine.
Cosa, del resto, comune ai “modernisti” di tutto il mondo.
Riappropriarci del nostro passato serve a liberarci da questo presente vischioso e torbido, senza memoria, neppure quella a breve termine: l’Alzheimer, appunto.
Nessuno sfugge al proprio passato, meno che mai quelli che nutrono l’illusione adolescenziale di poterlo fare.
Un giorno scopri allo specchio di essere ingrassato e di avere i lineamenti di tuo padre.
E anche tante altre cose di lui, che non avresti avere voluto avere.
Siamo il frutto culturale dei traumi subiti dalle generazioni che ci hanno preceduto.
Figli del terrorismo psicologico della scuola italiana nei confronti dei nostri genitori.
Nipoti del pubblico che ha assistito alla tortuna, all’impiccagione e al rogo di Francesco Cilocco.
Lontani pronipoti dei sopravvissuti a s’ocidroxu di Sanluri.
Discendenti dei tzeracus di Eleonora, nata in Catalogna, ma questo nessuno mai lo dice.
E qui mi fermo, ché potrebbe risultare che non siamo dicendenti dei sardi nuragici, ma dei sardi asserviti dai romani.
Oh, tantu pro nosi cumprender: is sardos de Barbagia puru, eh! Ca a is paristorias de Lilliu non faet prus a bi creer.
Siamo quello che siamo, che ci piaccia o no.
E non possiamo sceglierci il passato–la porzione di passato–che più ci aggrada e scordarci il resto, come propone Franciscu Sedda per la bandiera.
E meno ci piace il nostro passato è più ci conviene conoscerlo, se vogliamo evitare di ripeterlo.
Avere un passato e un’identità non è ozioso.
Può essere doloroso, ma non ozioso.
Ecco perché la scuola italiana si è impegnata tanto a cancellare la storia e la lingua dei sardi, con la complicità degli intellettuali discendenti del pubblico che–terrorizzato–applaudiva al supplizio di Cillocco.
Perché avere un passato, un’identità condivisa–la lingua–rende meno facile lo spalmarti addosso questo presente vischioso, torbido, fatto di giorni uno uguale all’altro e di individui intercambiabili, facilmente sostituibili l’uno con l’altro.
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