Dall’inviato speciale sul divano di casa.
Il mare osserva muto quelle parole che si arrotolano in un vento flebile che accarezza la riviera. I fiori ci sono sempre e ravvivano i colori di una festa che ritorna. E tra l’amore cantato, tra i papaveri e le papere, tra volare e chi non lavora non fa l’amore, tra trottolini amorosi e scimmie che ballano, siamo pronti alla più grande maratone dopo quella di Mentana: tutti zitti e buoni.Sanremo è divisivo per natura, anche sullo stesso divano di casa il tifo si divide: mia madre era per il melodramma, io per Antoine e le sue “Pietre”. Ho dissentito – e a lungo – per la vittoria di Povia a vantaggio della bellissima canzone dei Nomadi nel 2006 e ho osannato la famosa giuria di qualità per l’incredibile primo posto di Simone Cristicchi con “Ti regalerò una rosa” l’anno successivo. Le canzoni sono il pentagramma della nostra esistenza, il marciapiede dell’essenza, sono note che ci accompagnano e misurano il senso della vita. Possono piacere e non piacere, possono irretire, far sognare, innamorare, arrabbiare. Le canzoni sono vive e sono vita. E la gara, la competizione, fa parte delle piccole gioie quotidiane: abbiamo quasi tutti la squadra del cuore, il nostro campione preferito, l’attore o l’attrice, il giornalista e lo scrittore, il tennista e lo sciatore. Siamo divisivi per natura. Io, per esempio, amo alla perdizione il Palio di Siena per quanto accade prima che il mossiere decida la partenza. E’ adrenalina pura, voglia di partecipare e di scommettere. Sanremo è anche questo. Un qualcosa da non prendere troppo sul serio ma adatto alla sopravvivenza. A vivere nel minimalismo spicciolo, nel credere che una canzone ti possa modificare qualche minuto della giornata, ti possa far sorridere e ricordare. L’alchimia di un Festival amato, odiato, discusso, dimenticato, snobbato è tutta in poche note musicali: sono sempre sette ma riescono a far ballare l’universo. Ci sono canzoni che son passate su quel palco e hanno disegnato attimi della mia esistenza, come della vostra. Anche “Ci sarà” di Al Bano e Romina Power ha un senso vista dalla torre della curiosità. Come “Dietro la porta” di Cristiano De André, “Signor tenente” del compianto e bravissimo Giorgio Faletti, “Gente come noi” di Ivana Spagna e forse, dico forse, ha un senso anche la canzone orribile che Pupo, Emanuele Filiberto e Luca Canonici cantarono (con molte stonature) in un Sanremo dove vinse Valerio Scanu. Era il 2010, non una delle migliori edizioni. Non era, come i vini, una grande annata.I radical chic, a frotte, diserteranno il Festival preferendo alle canzonette un bel libro di Joyce. Non credeteci. Ho conosciuto davvero pochissime persone che hanno letto l’Ulisse. E pochissime che lo hanno amato. Ovviamente non sono tra questi. Mi ritorna in mente il festival dove il Covid stava per assalirci ma tutti facevamo finta di niente. Era il 2020 e vinse Diodato con una ispiratissima canzone che diventò la colonna sonora di un’Italia chiusa ed impaurita. Forse anche per questo motivo lo scorso anno ha trionfato il rock dei Maneskin, forse perché non ne potevamo più di stare zitti e buoni ed era necessario, davvero, far rumore. E’ la musica che vince sulle parole o viceversa? Non si è mai capito. Come non si capisce perché mai una persona adulta, seria, posata, dovrebbe fare la collezione di Dylan Dog, o è un consumatore seriale dei libri di King, o urla a dismisura per un gol di Messi o canticchia, con una buona dose di felicità, “poi dolce vita che te ne vai, sul lungotevere in festa”. Valli a capire gli adulti, sempre pronti a giocare come i bambini. E all’interno di questa leggerezza c’è tutta la maturità dell’uomo. Lasciate perdere tutto e ascoltate Sanremo. Senza vergogna e senza ritegno. C’è sempre qualcosa di interessante da scoprire. Che a leggere l’Ulisse di Joyce c’è sempre tempo. Fidatevi.
Ps: mi è piaciuta (ho letto tutti i testi di questo festival che va a cominciare) “Tuo padre, mia madre, Lucia” di Giovanni Truppi. “Corrono, corrono, corrono, gli occhi si schiudono, gli attimi cadono, dimmi se sei triste, dove andiamo, che ci faccio qui”. Sicuramente non vincerà ma lo ascolterò con molta attenzione, soprattutto nella serata delle cover dove presenterà “Nella mia ora di libertà” di Fabrizio De André in coppia con Vinicio Capossela. Per dire. Scaldo il divano e mi preparo alla prima serata. Vi saprò dire.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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