C’è una scena, nella seconda delle quattro parti di Sanpa, che le televisioni di oggi non potrebbero mostrare.Siamo negli anni Ottanta.Monica è riuscita a scappare dalla comunità di San Patrignano e si è nascosta nella vicina Rimini. Non ha ancora superato la dipendenza da eroina e, appena può, corre a bucarsi.Ma subito dopo si sente perduta e rinuncia alla fuga.Vincenzo Muccioli viene a sapere dove si trovi Monica dal videoreporter Red Ronnie, amico del fondatore di San Patrignano e assiduo cronista di ciò che avveniva sulla collina in cima al paese di Coriano, cuore della Romagna profonda.La scena suscita sentimenti contrastanti, a rivederla oggi in tempi di privacy e rigorosa riservatezza dei dati personali, in tempi in cui immagini e parole non debbono minimamente minacciare dignità e futuro delle persone.Sotto il microfono di Red Ronnie e la telecamera del suo operatore, Monica piange lacrime disperate, la sua voce è un lamento di monosillabi incomprensibili.Vincenzo la domina fisicamente, dall’alto dei quasi due metri di statura, le tende le braccia e lei si abbandona sul petto dell’omone.Si assiste ad un perdono in diretta e non si capisce se la ragazza sia più pentita o più prostrata, incapace di decidere liberamente per mancanza di alternative.Un’altra scena, stesso periodo.Red Ronnie stavolta intervista una ragazza dal volto bello e devastato, dalla cui bocca escono a fatica parole biascicate.Una bambina con gli occhi chiari travolta dal mondo, abbattuta dall’eroina.Sta aspettando fuori dalle porte della comunità, assieme ad altre centinaia di tossici di tutta Italia che implorano accoglienza.Il reporter le chiede se sarebbe disposta ad accettare le catene, pur di liberarsi dalla schiavitù dalla siringa.Non è una metafora. In quel mentre, è in corso il processo a Muccioli e i suoi collaboratori per i maltrattamenti ad alcuni degli ospiti della comunità, ridotti in catene per impedire loro la fuga.La ragazza risponde che sì, le starebbero bene anche le catene.E si viene investiti da un senso di rassegnata disperazione, nel sorriso mite di questa forse ventenne, disposta a tutto pur di rubare tempo alla morte,Oggi tutto questo non si potrebbe documentare.E in questa distanza tra ciò che è e ciò che si può dire, io vedo la stessa distanza tra la parte emersa di San Patrignano e le sue retrovie, con le violenze e i pestaggi. le vessazioni, le censure, l’onnipotenza di un creatore che forse non era più in grado di controllare la sua creatura e neppure se stesso.Venticinque anni dopo la morte di Muccioli, la storia lacerante di San Patrignano è stata riassunta in un documentario mandato in onda da Netflix.S’intitola Sanpa e ne stanno giustamente parlando tutti.Quando io sentii parlare per la prima volta di Muccioli ero un ragazzino, quando Muccioli morì avevo superato da un pezzo i vent’anni.Leggevo tutte le settimane Cuore, il settimanale satirico figlio de L’Unità che trovavo un insostituibile riferimento culturale.Durante l’agonia finale di Muccioli, Cuore uscì con quella dirompente prima pagina col titolo “Tutto pronto all’inferno per l’arrivo di Muccioli”.Ne provai disgusto e a poco valsero le prediche di chi sosteneva, e sostiene, che alla satira non si possano porre limiti, neppure al cospetto della morte.Certo che non bisogna porre limiti alla satira. Ma neppure alla libertà di indignarsi.Non bastava neppure l’omicidio di Roberto Maranzano e tutti i retroscena, ai miei occhi, per giustificare quel cinismo.Ho un amico fraterno nato e cresciuto a Coriano. Ma fino ad oggi di San Patrignano non avevamo mai parlato, forse perché io non sapevo che la comunità apparteneva al comprensorio del suo paese natale.Aveva familiari in ottimi rapporti con Muccioli e ogni tanto andava in comunità, dove si allevava e produceva di tutto.Mi ha raccontato delle baraccopoli sulla strada, verso la collina, dei ragazzi devastati in cerca di salvezza e dei loro genitori, esasperati e disposti a tutto.“Li avrei presi tutti con me”, mi ha detto il mio amico. Ma non poteva.Gli eroinomani erano i reietti, la feccia che nessuno voleva, tanto più quando il flagello dell’Aids iniziò a sterminare i tossici: a San Patrignano, a fine anni ottanta, i due terzi degli ospiti risultarono sieropositivi.In un fango da cui tutti si tenevano lontani, comprese le istituzioni, Muccioli si tuffò tendendo mano e cuore a questi morti viventi. Certo, c’erano i figli di attori famosi, rampolli della ricca borghesia industriale, il denaro dei Moratti. Ma sempre fango restava.Oggi che ho quasi cinquant’anni, credo sia venuto il momento di prendere posizione.Tra chi scrisse il titolo di apertura del mio giornale preferito e chi accolse, nella sua tenuta, migliaia di ragazzi senza speranza, se non quella che lui poteva offrire.Io sto con Muccioli. Stavo con lui anche allora, da ventenne, ma forse non lo sapevo o non avevo il coraggio di ammetterlo.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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