di Tore Dessena e Maria Dore
Arrivato il grande giorno.
Concerto che viene preceduto da un alone di mistero: inizialmente previsto per Cagliari, viene spostato a Porto Torres. La confusione al cancello la dice lunga. E molti non nascondono i dubbi sulla scelta di una location così delicata come l’area archeologica.
Il concerto inizia con il canonico ritardo ma la spasmodica attesa è premiata: l’unica data sarda ci consegna gli Afterhours in forma smagliante.
Presenza scenica di Manuel Agnelli, adeguatamente sostenuta da tutti i componenti, dotati anch’essi di una grande presenza, il tutto guidato dalla regia – occulta ma non più di tanto – di Rodrigo D’Erasmo, polistrumentista ed alter ego compositivo di Manuel. L’innesto dei due nuovi componenti , Fabio Rondanini e Stefano Pilia , può dirsi metabolizzato perfettamente; gli Afterhours sono una perfetta macchina Rock.
Il concerto scivola via per due ore, scaletta composta nella prima parte da brani estratti dall’ultimo disco, “Folfiri o Folfox” (leggi la nostra recensione qui) e i tanti classici.
Quando Manuel avvicina il dito sulle labbra per chiedere silenzio, non è un monito. Ci dà quello che vogliamo, inizia “Male di miele”. In seguito fa anche di più, regalando “Strategie” e “Pop (una canzone pop)” ri arrangiata chiave acustica.
A fine della serata non c’è distinzione tra l’emozione del pubblico e quella dei sei sul paco. Ciò che è nostro è loro e appare chiaro nei volti di tutti: è così che è essere sani.
Tre giorni prima del concerto abbiamo intervistato per voi Rodrigo d’Erasmo.
Ascoltando il disco alla sua uscita ci è sembrato che alcune atmosfere fossero figlie di “Padania”. Nel 2012 hai dichiarato che vedevi Padania come un disco proiettato “in un futuro prossimo”. C’è quindi una continuità, nonostante la diversità dei temi trattati?
Sì, sicuramente.
Credo sia un processo di approfondimento, sia dal punto di vista tematico che sonoro, di quella che è la trasformazione nostra come individui, come uomini che maturano, crescono e diventano definitivamente adulti.
E diventare definitivamente adulti vuol dire anche soffrire, perdere delle persone importanti. È quello che si cominciava a elaborare con Padania e che diventa il tema fondante di questo album, soprattutto a livello testuale.
A livello musicale era naturale proseguire sull’onda di Padania perché è stato un disco cruciale per noi, a cui siamo legatissimi e che ancora oggi è estremamente attuale, sperimentale direi.
Padania ha aperto un ciclo anche in termini di modalità di lavorazione perché è con questo disco che abbiamo lavorato separatamente, non tutti insieme “jammando”, ma scrivendo molto di più, lavorando molto di più di composizione quasi “classica”, passami il termine, per sovrapposizione.
È stato tutto molto studiato, molto scritto ed è esattamente la stessa cosa che abbiamo applicato in questo ultimo album. Se poi c’è stata un’evoluzione, una crescita, non sta a me dirlo; però chiaramente la diversità sta nei membri nuovi, in questo nostro nuovo periodo storico e nella nuova amalgama che c’è in questo organico.Credo che questo traspaia molto.
A proposito di nuovi membri, Ogni volta che c’è un cambio di line-up il sound di una band acquisisce nuova linfa,come testimonia l’ingresso di Rondanini . Quanto hanno inciso il groove e la potenza di Fabio nel processo compositivo?
Fabio è stato fondamentale dal principio.
Io e Manuel abbiamo cominciato a scrivere molto, avevamo già del materiale da parte e tanta roba l’abbiamo scritta ad hoc io e lui nella prima fase.
Ma il desiderio è stato quello di coinvolgere immediatamente Fabio in fase creativa per capire dove potevamo spingerci con lui, per capire in quali territori ci avrebbe portato e da subito si è rivelato una fucina di idee incredibile.
Fabio è stato molto generoso anche nel darsi al 100% al progetto ed è stato fondamentale dal principio perché, chiaramente, avendo un ventaglio così ampio di soluzioni abbiamo potuto creare prima un caleidoscopio abbastanza ampio per poi cercare di rendere tutto il più compatto possibile. In seguito sono state probabilmente le chitarre ad amalgamare tutto quello che avevamo fatto all’inizio in trio, io Manuel e Fabio.Però indubbiamente l’apporto di uno come Fabio, che è molto solido e allo stesso tempo ha un suono molto ben definito – anche se abbiamo lavorato tanto anche in produzione con Tommaso Colliva – si è sentito: è molto creativo, molto vario, quindi non sai mai cosa aspettarti esattamente da tutto quello che è la sua verve; è anche una persona molto disponibile in studio, accetta tantissimo i consigli e se si può andare a sondare qualcosa a cui lui non aveva pensato, perché magari poco batteristico ma interessante, allora si va!
Ti faccio l’esempio di “Roma”; ops, scusami, ti faccio l’esempio di Folfiri o Folfox ; l’ho chiamata col titolo di lavorazione, si chiamava così… è un brano che nasce dalla mia batteria elettronica, il ritmo l’ho scritto io con una drum machine.
Ma quel matto di Fabio si è appassionato talmente tanto al pattern di quella drum machine, che era piuttosto improbabile perché era scritta da un non batterista, da cercare di riprodurla fino a riuscirci; e quindi nell’album suonano da una parte la drum machine distorta e dall’altra la Ludwig di Fabio all’unisono. Ed è quello che tenteremo di fare anche live quando proporremo quel brano. (Wow!!! ndr)
Quindi insomma, Fabio si è rivelato anche estremamente aperto, disposto al dialogo e allo stimolo esterno oltre a tutte le idee che già lui porta.
E Stefano (Pilia, ndr) è stato, aggiungo, quello che ha portato tantissimo dal punto di vista timbrico, nella ricerca del suono.
Lui è un esteta del suono come pochi ce ne sono ed è un conoscitore molto profondo delle sonorità del suo strumento, tanto da aver “svoltato” alcuni brani; alcuni li ha scritti anche, ma altri li ha “svoltati” veramente tanto in arrangiamento.
Ad esempio, penso a Se io fossi il giudice, per il quale è stato poi premiato con una firma come se l’avesse scritto lui, il pezzo; perché mancava un qualcosa che portasse da qualche parte a livello di sound. Con la sua chitarra ha “cucito” tutto facendo diventare il pezzo esattamente quello che cercavamo a livello di identità; un mix di periodi, di età, di generi, di suggestioni…tutto con quella chitarra, e tutto molto curato!Quindi, insomma, è entrato in punta di piedi perché lui è così anche caratterialmente, ma poi alla fine ha lasciato un segno molto forte.
Davvero interessante. Recentemente avete dichiarato di aver voluto sacrificare un po’ dello spirito punk per evitare di “rovinare lo spettacolo”. Nonostante ciò l’impatto live per voi è un marchio di fabbrica irrinunciabile. Come fanno gli Afterhours a far coesistere potenza e presenza scenica con la pulizia nell’esecuzione dei brani?
Bella domanda!
Beh, con tanto lavoro, indubbiamente.
In questo caso ad esempio, lo dico molto onestamente, tanto lavoro è stato fatto nella preparazione, nell’esecuzione e poi nella registrazione dell’album; quindi avevamo interiorizzato molto la struttura del disco nuovo.
Però poi suonarli è un’altra cosa; quando parti in tour c’è sempre una fase di rodaggio nella quale siamo estremamente maniacali, è una cosa che posso dire per certo.
Se ci fosse una cimice in camerino che potesse vedere cosa succede alla fine di un concerto: quando è andata molto bene, abbracci, complimenti reciproci; in caso contrario invece siamo tutti abbastanza ammutoliti, silenziosi.La prima cosa che accade immediatamente è la discussione a caldo di tutto quello che è successo sul palco, scaletta alla mano andando a correggere quello che non è andato.Anche la migliore delle serate si va a correggere, pezzo per pezzo, tutto quello che secondo noi ci allontana ancora dalla perfezione.
Per cui, insomma, questa ricerca della perfezione non l’abbiamo mai mollata; siamo degli ossessivi, ossessionati dal desiderio di dare il massimo, prima di tutto per essere soddisfatti di noi, di quello che portiamo e trasmettiamo, di tensione, di emotività e anche tecnicamente, perché no.
E credo questo poi arrivi alla gente…e siamo molto soddisfatti.
Sì, noi lo percepiamo. Tu hai una formazione accademica, come pure Manuel con i suoi studi di pianoforte. La presenza del violino nel contesto rock è, storicamente, abbastanza singolare se non addirittura rara. C’è una componente “orchestrale” che viene fuori nel vostro processo compositivo oppure il tuo apporto in qualità di violinista si “limita” a colorare un canovaccio rock?
No, no, c’è proprio una parte orchestrale… Ce ne sono, anche in questi due dischi che ho fatto (Padania e Fof, ndr)
Ce ne sono tanti di archi e sono, chiaramente dosati; abbiamo dovuto conoscerci, soprattutto io e Manuel, per capire come davvero intendesse lui l’uso degli archi e l’uso di queste orchestre che spesso devono essereoblique, hanno una doppia faccia.
Però questo a me è risultato molto semplice da capire perché in realtà rappresentano anche il mio modo di intenderle.
È come ho sempre fatto anche io; le mie musiche sono sempre a cavallo tra tonalità maggiore e minore: io sono bachiano di formazione, adoro Bach e questa sua alternanza, questo gioco di maggiori e minori che, ovviamente, si porta dietro anche un gioco emotivo di su è giù emozionali e di atmosfere, che passano dalle più intense alle più malinconiche e addirittura a quelle spaventose o inquietanti; ad altre invece estremamente emozionanti in senso più solare, in senso più aperto eccetera.
Credo che tutto questo, mescolato con tutto il mondo chitarristico, la parte di drumming rappresenti sempre un territorio interessante da esplorare.
Poi non è che tutto ciò debba essere abusato; infatti cerchiamo di dosare ogni volta e ci sono brani in cui l’approccio è passivo, come in “Metamorfosi” e in “Padania”e altre situazioniin cui le suite per archi che ci sono, Ophrixin FoF o ancheIceberg in Padania,servono proprio a creare alcuni momenti particolari, un climax che ti porti a quello che arriva dopo oppure a pulirti le orecchie o, in qualche maniera, anche i sentimenti da quello che è venuto prima.
Quindi sì, gli archi sono chiaramente il mio territorio preferito e il fatto di poterli usare in questa maniera è molto stimolante, molto affascinante e niente affatto canonico o convenzionale.
In un incontro alla libreria Feltrinelli di Roma nel 2014 hai indicato Padania e Quello che non c’è come i tuoi lavori preferiti degli Afterhours, sottolineando un ironico distacco rispetto all’osannato Hai paura del buio che stavate portando in tour. Come rivedi la tua classifica personale ora che si è aggiunto Folfiri o Folfox?
(Ride ndr) Eh, balza in testa FoF, seguito daPadania e subito dietro ancora Quello che non c’è che rimane sul podio e quindi non viene scalzato.
Ma quest’album qua (FoF ndr) è indubbiamente il disco più bello e più importante della mia vita.
Avete annunciato come probabile un tour invernale tutto dedicato a FoF . Lo consideri un rischio, considerato che avete provato la stessa operazione con Hai paura del buio, album diversissimo e, come ho detto prima, osannato?
Sì, forse lo è, ma non ci interessa, come non ci siamo mai interessati delle conseguenze quando abbiamo rischiato tutte le altre volte.
È un esigenza farlo; tra l’altro sottolineo sempre il fatto che, molto piacevolmente e in maniera piuttosto sorprendente per noi, quest’estate la gente sta recependo l’album nuovo in maniera splendida, da subito.
Molti brani sono già entrati nel cuore e si vede, sono già cantati, sono già partecipati e tantissima gente ci scrive lamentandosi del fatto che facciamo ancora pochi pezzi del nuovo album, che è una roba totalmente inedita nella storia degli Afterhours.
Quindi diciamo che il pensiero di fare un concept live l’avevamo già prima; chiaramente se quest’estate l’accoglienza dell’album si fosse rivelata un disastro avremmo avuto qualche remora e magari ci avremmo anche ripensato, lo dico onestamente, o comunque avremmo fatto una via di mezzo.
Però anche volendo rischiare, con questo tipo di calore e di abbraccio da parte della gente il rischio si riduce, anche se vogliamo – e sarà importante per noi -ricostruire la tensione emotiva molto solida e molto potente che ha l’album sul supporto e cercare di riprodurla dal vivo.
Non sarà semplice, su questo non c’è dubbio, però sarà anche molto stimolante.
Grazie, allora ci vedremo a Porto Torres. É tutta l’estate che vi aspettiamo.
Anche noi non vediamo l’ora di venire in Sardegna!
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