Il 21 giugno del 1966 morì Salvator Ruju. E Sassari lo pianse davvero, come raramente avviene in questa città che preferisce ridere.Nei miei tanti anni di Nuova Sardegna mi sarà capitato milioni di volte di buttare uno sguardo su quel dipinto di Giuseppe Biasi che raffigura la redazione degli inizi degli anni Venti.Cinque personaggi.Lo stile scanzonato con cui Biasi ritraeva la borghesia di quella Sassari.E uno dei cinque era uno scapigliatissimo Salvator Ruju. Scapigliatura bonaria: letterariamente parlando, non era certamente un bohémien.Magari però scapigliatura effettiva se parliamo dei suoi capelli, che sembravano la raggiera di Lucia nei “Promessi Sposi”.All’inizio della mia permanenza al giornale, primi anni Settanta, quel grande quadro era nella stanza del direttore di turno e quindi ci volevano motivi seri per entrare lì e dargli un’occhiata. Poi è finito nell’ufficio dell’amministratore delegato, dove ci volevano motivi ancora più seri, e infine in luoghi un po’ più di passaggio, dove qualche volta potevo soffermarmi a riflettere quali tempi fossero quelli nei quali un giornalista poteva essere poeta.O, meglio ancora, un poeta fare anche il giornalista.Qual era delle due l’attività principale e qual era quella “a tempo perso”?O c’era forse una straordinaria unicità narrativa nella quale il racconto dei fatti concreti fluiva insieme alla poesia dei sentimenti e delle sensazioni?Sarà più per questa mia suggestione esistenzial-giornalistica che per una profondità critica che certo mi manca, ma per me la grandezza di Agniru Canu risiede proprio nella ineguagliata capacità di raccontare tutto con il più nobile dei linguaggi, che è quello della poesia.Tutto vuol dire tutto. Cioè non soltanto sprazzi di umore, la composizione chimica e sentimentale di una lacrima o la morfologia di un sorriso, il lampo accecante di un ricordo o il letto riposante della malinconia. Gli argomenti soliti della poesia, insomma.Tutto vuol dire anche le nostre storie cittadine del nostro mondo piccolo, le nostre polemiche, ciò che ci rende grandi e che ci rende minuti, i drammi e le farse della cultura, dell’edilizia, dell’urbanistica, il teatro delle persone, con i suoi protagonisti e i figuranti: tutto. Cioè la cronaca della città, per parlarci chiaro.E se uno chiede quindi chi è Agniru Canu penso non sia del tutto stupido rispondere che, oltre che uno dei due grandi poeti di Sassari con Pompero Calvia, è anche il più grande cronista di Sassari. E badate bene che io ho un tale rispetto dei bravi cronisti, la vetta più alta che un giornalista possa raggiungere, che dicendogli insieme grande poeta e grande cronista è come se balzassi in piedi urlando “Agniru Canu santo subito!”.Ora bisogna stare attenti a non mitizzare quei tempi raffigurati nel quadro di Biasi. Salvator Ruju, pure amandoli, quei tempi, sarebbe il primo a non farlo. La Nuova Sardegna di quel quadro, a esempio, era la Nuova che appoggiò il Fascismo nascente, quella Nuova dell’idealizzato Medardo Riccio. E soltanto dopo la sua morte e quella di Pietro Satta Branca, avvenute entrambe nel 1923, il figlio di quest’ultimo, Arnaldo, poté assumere la direzione del giornale facendone una magnifica espressione della borghesia illuminata sassarese che il Regime ben presto costrinse alla chiusura.Ma una cosa aveva di ineguagliabile quella Nuova Sardegna fascista e poi antifascista: la capacità di raccontare, la capacità di fare la cronaca nella sua più grande forma narrativa.Nel giornale che dopo la chiusura la sostituì, L’Isola, e al quale passò anche Ruju, gli stessi redattori rimpiangevano quel miracolo narrativo quotidiano, ormai fatto fuori dai fascisti, di cui la poesia era grande parte.In quegli anni Salvator Ruju, quando doveva scrivere esplicitamente poesie, e voleva farlo usando il Sassarese, lingua che aveva minuziosamente ristudiato, stabilendone tra l’altro una approfondita grafia, quando faceva questo, quindi, usava lo pseudonimo di Agniru Canu. Non lo faceva per nascondersi, per giocare a Jekyll e Hyde, non aveva alcuna identità imbarazzante o feroce da celare.Il Sassarese per il poeta aveva la stessa nobiltà dell’Italiano e di ogni altra lingua, lo aveva studiato con lo stesso puntiglio e lo usava con la medesima agilità. E neppure si può dire che la lingua della sua città gli venisse più agevole per raccontare una “certa” sua città. Se c’è infatti una cosa che Sassari deve a Ruju è quella di avere grandemente contributo a togliere al Sassarese la patente della lingua della cionfra, della burla spesso volgare, per restituirgli la dignità di un codice nel quale ogni cosa, dai fatti ai sentimenti, può essere espressa.Ma forse certi angolini della sua memoria gentile erano più aperti alla lingua dell’infanzia.Ci sono alcuni misteriosi imprinting ai quali è difficile dare una spiegazione psicologica o letteraria. Io, a esempio, sin da bambino nella mia famiglia stretta ho sempre parlato in Italiano. Usavo il Sassarese soltanto con mio nonno materno e con molti dei miei amici di strada. Eppure nelle reazioni istintive mi salta fuori il Sassarese. Se mi faccio male dico parolacce sassaresi, se ho una gioia improvvisa reagisco in sassarese (spesso usando le stesse parolacce del dolore, ma questa è un’altra faccenda inerente la mia discutibile propensione a usare parolacce).E infatti nella produzione sassarese di Agniru Canu è più facile trovare questa eterna infanzia, l’emozione apparentemente spontanea ma in realtà filtrata da studio e riflessione, come avviene per ogni bravo scrittore.Penso che molti di quelli che sono arrivati a leggere sino a qui conoscano la dedica che apre Agnireddu e Rusina, la prima delle due raccolte di poesie sassaresi (l’altra è Sassari veccia e noba).La dedica di Agnireddu e Rusina è al suo caro amico professor Salvatore Coradduzza. Una sinfonia di memorie che comincia con due note così semplici e così belle:“Ricordi, Barò?”.E Ruju rivolgendosi a Barore ricorda le poesie in Sassarese pubblicate sull’Isola intorno al 1926. E di come Coradduzza ammirasse soprattutto questo misterioso Agniru Canu. E lo confidava a Salvator Ruju seduti al bar Abbondio. Ed erano grandi discussioni: “Ma cantu mi piazi chisth’Agniru Canu! E ca sarà? Dimmiru, tu lu sai”.E Ruju, marpione, a rispondergli che al giornale nessuno lo conosceva.E qui, per il gusto di prendere in giro l’amico caro, di cui voleva smorzare l’entusiasmo, Ruju per la prima e forse unica volta fa la recensione di se stesso, rivelando l’immagine che egli aveva della propria poesia.Fingendo di parlare del misterioso Agniru Canu, diceva: “Un giovane autentico contadino, forse, con un po’ di istruzione, un buon gusto istintivo e una bella padronanza del dialetto. Tutto qui”.E in questo modo parlava delle poesie pubblicate in quei mesi, come erano A te, Rusì, Rimundica, Pa l’isthrinti, Pascha d’amori, La cappillina (quella che inizia “Cagliadi linga mara, ibbadragliada, cosa credi chi sia la cappillina a cumpunitti, a fatti signorina di bona pisadia, bé educada?”. E che nella prima edizione del 1957 di Sassari veccia e noba ricevette il titolo senz’altro meno icastico di “Sdegno di una vecchia popolana”).E racconta che fu proprio il giorno di pubblicazione di quest’ultimo sonetto che rivelò a Salvatore Coradduzza che Agniru Canu era lui.E da allora per anni e anni Coradduzza lo tormentò consigliandogli di pubblicare in raccolta le sue poesie sassaresi: “Sai che cosa ti dico? A me piacciono più di quelle tue in Italiano”. Sarà anche perché a Coradduzza, classicista ortodosso e carducciano, non doveva piacere il verseggiare italiano di Ruju, piuttosto anarchico, come dice di sé il poeta: “staccato dalla tradizione, in forme metriche libere, senza rime e con molte dissonanze”.Ecco quindi – la ripeto – l’opinione che Salvator Ruju aveva di Agniru Canu: “Un giovane autentico contadino, con un po’ di istruzione, un buon gusto istintivo e una bella padronanza del dialetto. Tutto qui”.Contadino non era lui. Lo era stato suo padre che si era svenato per assicurargli decoro e istruzione. Un’origine coltivata nella via Decimario, dove nacque il poeta, e se ci andate coglierete ancora molti dei profumi esistenziali che hanno condizionato la sua opera in Sassarese.E poi “una bella padronanza del dialetto”. A livello di filologia professionale, direi io. Nello studio delle origini, del lessico, della grafia, della “tormentata grafia” – come spiega lo stesso Ruju – riguardo alla quale nessun accordo è ancora raggiunto”.Sassari ebbe in quegli anni con lui la sua poesia sassarese, insieme popolare, nobile e colta.Usava le parole e i modi di dire più popolari, quelli davvero popolari, non quelli popolareggianti di una borghesia che svillaneggiava con i suoi autori una inesistente Sassari zappadorina che parlava male l’Italiano storpiandolo con il dialetto, dove sui sentimenti veri prevaleva sempre la cionfra che, per nascondere differenze sociali spesso atroci, univa falsamente ricchi e poveri sotto la stessa burla.Sua nipote Caterina Ruju, bravissima esegeta dell’opera dello scrittore, ci racconta che il professor Ruju mandava i suoi studenti, che stravedevano per lui, a raccogliere proverbi ed espressioni in Sassarese. Una ricerca anche antropologica che dimostra, insieme a tanti altri aspetti della sua opera, come Agniru Canu sia uno degli esponenti più alti e solidi, tra gli ultimi in ordine cronologico, della ripresa culturale della Sardegna dopo gli anni della delusione provocata dalla “fusione imperfetta” prima con il Piemonte e poi con l’Italia, come ha scritto Nicola Tanda.Quella di Agniru Canu è davvero la voce del popolo raccolta e riletta in una cornice di finezza linguistica e in una chiave di dolce malinconia soggettiva. I luoghi comuni sulla rozzezza della lingua sassarese vengono liquidati dal poeta nella sua moderna e insieme classica riproposizione.Salvator Ruju non era simile a quei frequentatori annoiati del Caffè Murgia, del bar Torino, del caffè Rau , di Agnesa, di Sechi o degli altri locali di Sassari, quella gente che dopo qualche divertito sorriso e scambio di battute alla fine – lo raccontava il grande etnomusicologo Pietro Sassu – mandava via i “pezzenti” che nei periodi canonici arrivavano dai quartieri poveri a recitare le gobbule e chiedere in cambio qualche soldo.Agniru Canu ricercava quella e ogni altra espressione culturale dalle antichissime radici, la filtrava nella sua raffinata cultura e la riproponeva nei suoi versi apparentemente semplici, dalla melodia piana e avvolgente. Fu Agniru Canu a capire che, a esempio nelle gobbule, la satira e il lessico violento non erano la cionfra che copre con la risata ogni differenza tra ricchi e poveri, soprattutto per mantenerla, questa differenza. Ruju sapeva che la vera arguzia popolare è quella che prende amaramente coscienza delle diseguaglianze della società. Una presa d’atto, tutto qui, ma è tanto, indipendentemente dalle conseguenze più o meno ribellistiche.Ma al di là degli importanti contenuti, io credo sia la riproposizione della lingua sassarese l’aspetto centrale dell’opera di Agniru Canu, che ancora assicura la sopravvivenza, almeno nell’ambito colto, di un idioma che forse senza di lui sarebbe ancora più vicino all’estinzione.Mi ricorda il Napoletano di Petito, di Scarpetta o dei De Filippo: anche il Sassarese di Agniru Canu, come il napoletano di quei simboli della universalità espressiva di ogni lingua, è purissimo, costellato di particolari idiomatismi, eppure comprensibilissimo per tutti e tutti possono annusare il profumo di fiori, di giardino e di patiu che si sprigiona dall’amore di Agnireddu e Rusina.Una lingua difficile e aspra, la nostra, che però nelle mani di Agniru Canu diventa uno strumento morbido e dolce, veicolo di sentimenti delicati o megafono preciso e stentoreo di ironia e beffe amare.Una lingua forte che diventa lingua letteraria senza perdere nulla delle sue origini, esaltate in un contesto di amara, malinconica, laica e struggente dolcezza, che è lo stigma del poeta.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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