Chi conserverà quei 150 anni di storia del dolore sassarese? Chi impedirà a quelle celle di perdere le anime tristi di mille e mille prigionieri? Ogni volta che al Comune si muove qualcosa, io mi chiedo sempre se salterà fuori qualcuno che salverà il carcere di San Sebastiano.Dalle sbarre vedevano le finestre dei palazzi di via Cavour. E sognavano la libertà. Io ero uno dei tanti sassaresi che alle feste di fine anno condivano l’allegria con un pizzico di malinconia e andavano a fare gli auguri ai detenuti di San Sebastiano.Ohé, non è che si entrasse in parlatorio come damine di carità, con i permessi tutti in regola, a fare i buoni buoni con quei poveracci che tu poi tu te n’esci e trovi a casa l’agnello al sugo e loro tornano in cella.No, si usava passare lì sotto. E senza dirlo a nessuno guardavi quelle sbarre che rompevano il quadrato di luce. E ti immaginavi tanti fratelli che guardavano te libero nella strada che guardavi loro prigionieri. Un gioco di sguardi rimandati, di specchi, un quadro surrealista che ti immaginavi potesse avere qualche effetto consolatorio.E loro in ogni periodo dell’anno potevano guardare anche le finestre dei palazzi di via Cavour e delle altre sezioni di strade comprese nel panorama ristretto eppure infinito del loro pezzetto di cielo.Eravamo tutti noi, liberi e prigionieri, uomini e case, persone e finestre, l’anima di Sassari che accoglieva anche quel vecchio luogo di sofferenze, che lo incistava nel suo essere città, quasi guarendolo da un obbligo balordo eppure dicono necessario, il più balordo che si possa avere quando è quello di negare la libertà.Che fine ha fatto dal 2013 a questo 2019 la simbiosi pietosa tra la città e i suoi figli prigionieri?Quella comunione rappresentata dai muri vecchi, dalle torrette, dalle finestre prigioniere dalle quali gli uomini prigionieri potevano vedere le finestre libere e gli uomini liberi.E contare i giorni che mancavano. Che fossero pochi o tanti.A Bancali i cessi sono puliti, le celle sono calde. Ma dalle finestre vedono solo il deserto che hanno dentro l’anima.In un giorno del 2013 nel volgere di poche ore vennero trasferiti dal carcere di San Sebastiano a quello di Bancali 148 uomini, 13 donne e un bambino (al seguito di una delle donne, non essendo il neonato accusato di alcun reato). Il trasferimento cominciò poco dopo l’alba con una serie di viaggi di cellulari che prelevavano i detenuti tra la curiosità dei passanti di via Roma.Una dismissione frettolosa i cui segni sono rimasti a lungo visibili e non so se magari lo siano ancora, sette anni dopo. Tutto venne abbandonato come per un’evacuazione improvvisa da terremoto.Il tempo tra le alte mura si era fermato a quella giornata. Nei mesi successivi ho compiuto diversi sopralluoghi perché lì dentro si doveva rappresentare una mia commedia. Ho visto quel giorno di fuga ancora immobile nel luridume delle celle, ho visto un giornale appiccicato al muro con merda ormai secca e ci ho letto l’ironico addio alla sua vecchia cella scagliato dal detenuto che andava via. L’ho visto negli avanzi di cibo e nei panni sporchi abbandonati, nei cadaveri mummificati di topi e piccioni che dovevi stare attento a non calpestare. Da quelle parti dopo la morte sembrava esserci la mummificazione, non la semplice putrefazione, uno strano fenomeno che aggiunge uno strato alla patina di mistero che nell’immaginario della città avvolge da un secolo e mezzo quel tetro edificio.Alle 16 di quel giorno era tutto finito. E così cessò da un minuto all’altro la vita del carcere sassarese di San Sebastiano e calò sulla città e sulla sua classe dirigente il pesante problema del recupero e della restituzione alla vita pubblica e civica di un edificio storico e monumentale che ricopre un intero isolato in uno dei quartieri più vivi e centrali.Era stato costruito negli ultimi decenni dell’Ottocento fuori città, quando venne abbandonato (ne sono rimaste le celle sotterranee) il terribile e centralissimo carcere di San Leonardo, nell’attuale piazza Tola.San Sebastiano venne edificato poco distante da piazza d’Italia, dove allora era campagna. Fuori città ma non tanto lontano da non essere visibile e minaccioso monito.Sassari crebbe e in pochi anni lo inglobò. Per anni fu un istituto moderno e dignitoso, poi venne lasciato decadere sino a diventare una delle vergogne del sistema penitenziario italiano. Negli ultimi vent’anni prima della chiusura era un luogo giudicato fuori dai parametri fissati dalla corte europea. Struttura malsana, celle superaffollate, cessi alla turca dentro alla cella stessa, dove ci si liberava praticamente davanti a tutti mentre l’angusto locale a ogni deiezione si riempiva di fetore. Queste celle sono arrivate a ospitare sino a otto detenuti ciascuna.In una visita cella per cella, che come giornalista ho compiuto negli anni Novanta con il senatore Luigi Manconi, ho trovato circa quattrocento detenuti in un istituto che non poteva ospitarne più di 190 (ed erano già troppi). Circa la metà erano tossicodipendenti, oltre la metà in carcere per reati legati alla droga, molti sieropositivi. E si immagini le condizioni in cui si viveva l’Aids in queste celle affollate e in anni in cui ancora questa malattia ispirava un terrore istintivo e irrazionale.Intere generazioni di sassaresi liberi hanno vissuto, passeggiato, fatto acquisti, lasciato l’auto in sosta intorno a quelle mura.Così come una guerra è il simbolo del fallimento della politica, penso che in una città il carcere sia il simbolo silenzioso dei fallimenti di quella stessa città.E quando cessa di essere silenzioso, come a esempio nella protesta contro le condizioni di vita nel carcere attuata dai detenuti nel 2000, la reazione è immediata e vuole essere crudelmente esemplare, come dimostrò il successivo pestaggio dei detenuti a opera di agenti di custodia, giudicato severamente dalla magistratura.C’è chi dice che quel pestaggio sarebbe passato sotto silenzio se non fosse avvenuto in un edificio che tutto sommato, carcere o non carcere, era al centro della città. Era parte della città. Una violenza quindi a cui la città si è ribellata perché era rivolta contro una parte di sé.Il silenzio, l’essere chiuso e nascosto, è comunque l’elemento principale. Il carcere per recludere alcuni cittadini deve escludere da sé la città ed esserne escluso, pur vivendo in un rapporto simbiotico con la struttura urbana.Ma i penitenziari totalmente rifiutati dai cittadini e lontani da qualsiasi rapporto fisico e sociale con la città non fanno altro che fabbricare nuova delinquenza.E San Sebastiano era un carcere non totalmente separato dal città, cioè dal resto della società di cui faceva parte ed era quindi potenzialmente in grado di favorire un reinserimento.Sarà lo stesso per Bancali?Io ora quando passo sotto le mura abbandonate lì non ho più nessuno a cui fare gli auguri. Quei fratelli sono fuori della città, senza neppure una finestra in via Cavour che li faccia sognare e sperare.Ma ora comunque resta il monumento abbandonato di via Roma, resta l’immensa testimonianza di un passato che non può essere dimenticato. Resta un’entità possentemente fisica che deve essere destinata a nuove funzioni e insieme a un ruolo culturale. Il carcere, o il suo fantasma ormai benigno, deve essere restituito alla città con tutte le sue suggestioni, la sua storia e i suoi valori architettonici e urbanistici. E questa è la difficile fase che Sassari deve affrettarsi a gestire.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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