Se adesso state serenamente decidendo come trascorrere il fine settimana, se ve ne state andando a spasso, se state sorseggiando un caffè, se state dormendo o qualunque altra cosa stiate liberamente facendo, forse un po’ di merito è di Vasilj Alexandrovich Arkhipov. Nel 2002, quando gli atti sulla crisi di Cuba di quarant’anni prima vennero desecretati, Arkhipov venne celebrato da tutti i media occidentali come l’eroe che salvò il mondo. Con quarant’anni di ritardo, appunto. E con quattro anni di ritardo sulla sua morte, avvenuta nel 1998, all’età di 74 anni.
Fino allora, nulla di poté dire su quel valoroso atto di coscienza compiuto da un ufficiale della marina sovietica. Un ufficiale della Russia comunista non poteva essere un eroe, non poteva disporre del valore umanità. Non sentitevi in difetto se non sapete chi sia Arkhipov: in un mondo dove la storia ognuno se la scrive come crede, dove a salvare la terra dalla catastrofi sono sempre gli americani, dove i cowboy sono i buoni e i pellerossa i cattivi, Vasily Alexandrovich Arkhipov era destinato all’anonimato. In realtà, prima del 27 ottobre 1962, eroe in patria lo era già, avendo salvato dal disastro nucleare, col suo coraggio e la sua inventiva, un sommergibile K19 in navigazione negli abissi attorno alla Groenlandia. Poi venne quel giorno. Il contesto lo conosciamo: i missili russi installati a Cuba, invocati da Castro dopo la Baia dei Porci, gli americani che se ne accorgono in imbarazzante ritardo e se la fanno sotto, visto che i missili potevano colpire il loro territorio, il blocco navale imposto da Kennedy attorno all’isola, perché le navi russe non vi si potessero avvicinare per completare le operazioni di costruzione delle basi militari. In un certo senso, una situazione che ricorda molto quella di questi giorni, con le truppe Nato piazzate ai limiti dell’ex impero russo. Ma i russi, si sa, hanno torto a prescindere. Il 27 ottobre del 1962, un ricognitore americano venne abbattuto sui cieli di Cuba, probabilmente dalla contraerea russa, cosicché il mondo si trovò sul ciglio del precipizio nucleare. Nelle stesse ore, il capitano Arkhipov navigava nelle profondità dei Caraibi sul sottomarino B59, nel tentativo di spezzare il blocco navale. Un bombardiere americano lo avvistò e iniziò a sganciare delle bombe per farlo riemergere. I due primi ufficiali di bordo decisero di armare la testata nucleare e far partire un attacco, probabilmente definitivo per le sorti della Guerra fredda e del mondo. Arkhipov, che formalmente non ne aveva l’autorità ma godeva di grande considerazione nel mondo militare sovietico, disse “niet”. Si oppose fermamente e fece ragionare i due superiori, facendoli recedere dalla loro posizione. L’attacco nucleare venne sventato e, il giorno dopo, tra Usa e Urss si raggiunse un accordo pacifico e la crisi finì. Per quarant’anni, si disse che a sventare la catastrofe nucleare fossero stati gli sforzi delle diplomazie occidentali e l’intervento di Papa Giovanni XXIII. E invece, più di loro, il merito fu del capitano Vasily Alexandrovich Arkhipov, nato a Mosca nel 1924 e morto nel 1998. Prima che il mondo occidentale scoprisse che anche un ufficiale della Marina sovietica poteva essere un eroe capace di salvare il mondo.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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