Un giorno ancora e saremo arrivati. Doveva essere un mese e quasi son stati cinque, doveva essere un oceano e ne sono trascorsi due, eravamo partiti per ritrovarci sani ma approderemo nel porto degli infetti, accolti nella carestia degli abbracci, nella solitudine delle città. Il mondo non è più lo stesso, ma non potevamo aspettarci tanto, ma ancora l’orografia ci inganna. Ecco che sfila Gibilterra sotto la rocca del Capo Europa come altre volte l’avevo vista e Tangeri sul lato opposto, al traverso di dritta, che se ne sta zitta e affacciata dalle terrazze del Cafè Hafa, tra i fossi della necropoli fenicia a guardare l’aldilà. Cosa ne sarà stato del Petit Socco e del suk popoloso chi può saperlo da questo oblò sporco di sale. Ecco Malaga, Cartaghena ed Almeria, riconosciamo il nostro lago mediterraneo, di onda brusca e nervosa, niente di quell’armonico dettaglio che le colline dell’oceano ci avevano insegnato.
Risaliamo verso nordest. Credo che il vento abbia ripreso a respirare e che i ragazzi di guardia abbiano aperto una vela di prua. Io sono in cabina e non so riposare. Finisce che ogni notte dorma al massimo cinque, sei ore, poi lascio i sogni a consumarsi e, di nuovo nel mio posto sul fly ritrovo il compagno di guardia.
Il capitano, seduto sugli scalini del pozzetto è triste o pensieroso. Ha gli occhi verde terra, la barba grigia e folta, un naso aquilino, la pelle abbrustolita di sole, una cuffietta di lana sulla testa color smeraldo. Vorrebbe forse fare come Moitessier nell’anno in cui doppiò per la seconda volta Buona Speranza e si fece inghiottire dall’oblìo e al mondo degli svegli dormienti non si sarebbe più mostrato. Vorrebbe forse girare la prua e destinarci alle terre dell’altrove, dove tira aria buona, profumo di bosco di pino. Ma gli toccherà tornare e riportarci da dov’eravamo partiti un centinaio d’anni fa.
Il primo ufficiale continua a far la conta di quanto manca alla pensione, “tredici anni e due mesi appena”, ma sua moglie riesce ancora ad inviargli dei piccoli whatsapp emozionati, che mostrano l’attesa intrepida nel confinio casalingo. Il direttore di macchina sogna la campagna senza cambi d’olio né misure di pressione; al marinaio spettava un po’ di vacanza ma si rassegna invece alla nuova quarantena. Al cuoco non par vero di rinunciare a noi e dedicare i suoi manicaretti alle bimbe di casa. Chi ha figli, fidanzate o libri a cui tornare conta il tempo alla rovescia e se tutto delle città è cambiato, se i baci e le amicizie sono rimandati o nascosti dietro le persiane, se le strade sono sfitte e senza voci non importa. Casa è tutto ciò che si desidera e ciò che si avrà, a breve.
Da questo oblò non c’è modo di capire, il sale ha interferito sui fili e fa contatto. Si vive stretti nell’unico domicilio galleggiante che in dieci ci ha tenuti mescolati, unti uno dell’altro, vicini com’era normale essere, prima che l’ordine del giorno fosse pandemia.
Ad ogni turno di guardia ci ritroviamo a domandare: novità? E una volta aggiornati sugli infetti giornalieri e sulle loro quarantene rivolgiamo dentro i nostri cellullari alle volte intercettati dal satellite uno sguardo agli altri Paesi, per vedere se anche fra quelli è scesa in campo la morbosa giustizia del flagello o se gli unici sfigati siamo noi e prevedendoci nel prossimo futuro, ciechi e ancora capaci di cordialità, ci confortiamo dicendo: passerà, in fondo ho un sacco di cose da sistemare in cantina.
Ma ancora possiamo parlare e stare insieme, seduti attorno alla mensa, indossando abiti che riposano vicini dentro gli stessi armadi. Ancora possiamo contaminarci e discutere e quante cose restano da dire e quante cosiderazioni, che gli italiani son così, che gli spagnoli ci somigliano, che i francesi mannaggia a loro, che i cinesi sono colpevoli e gli olandesi inquietanti e coraggiosi, che dei russi non parla nessuno, e che Trump e che Boris e che l’Africa e che maledetti i pipistrelli e chi li mangia.
E quanto amiamo parlare tutti insieme, confortarci o giudicare. Ognuno ha da fare il suo pronostico, lanciare il suo verdetto.
Poi erò non siamo soli. Chiusi si, in cinquantametri per dieci di una barca che, diamine di un armatore, poteva lasciarla in Uruguay dove contagi non ce n’è, non ancora, ma per quanto, eppure puliti e respiranti, franchi dall’immondo, ma per quanto.
Poi però saremo soli e presto i viaggi della separazione ci porteranno via l’uno dagli altri, chi in Francia, chi in Asturia, chi a Sarzana, chi a Milano, chi in Sardegna, chi al Sud.
Guardo il mio amico e lui guarda me ed il mare ci somiglia. Abbiamo varcato le colonne d’Ercole dopo tutto questo mare, il danno è fatto. Chi può si salvi e noi potremmo salvarci e non uno dei messaggi degli amici delle chat, che reciti: torna qua che si sta bene. L’oceano era il posto più sicuro in cui abitare. Ed è vero che non smetterei di stare dove sono, di navigare in cerca di terre nuove, che me ne andrei ancora un millennio in giro su questa barca con questo bravo equipaggio che ha lasciato le coste del mondo di un’epoca fa e nemmeno si ricorda più com’è fatto il viso bello di una ragazza o la battuta di un cameriere divertente. Me ne starei ancora a girare questi mari, atterrando di qua e di la in un pianeta nuovo, dove tutto è scoperta, dove vivono ancora indigeni di caccia e raccolta, dove gli umani si radunano attorno a monoliti di pietra coi visi scolpiti e gli occhi di corallo a pregare per antenati scomparsi millenni avanti, progenitori derivati dai ghiacci e da canoe fatte di tronchi d’albero la cui specie è ormai estinta. Estinta.
Girerei così per un pianeta che non esiste, perché niente può dare più conforto o protezione. Tahiti, Rapa Nui, Isla Grande de Tierra del Fuego, Uruguay, Capo Verde, Lanzarote, Tangeri. Dove sarà mai più possibile trovare rifugio? Potrei infilarmi fra i monti e le case azzurre di Chefchaouen o quelle bianche di Essaouira davanti alla spiaggia, o fra quelle basse di Praia sull’isola di Santiago, ma avrei la certezza che il mondo è già arrivato anche lì centinaia di anni prima di me che viaggio da quando son nata e che già aveva cominciato a mischiarsi. Il mondo è già arrivato ovunque e per sfuggirsi, per non farsi acchiappare dal suo stesso morbo, non è rimasto nemmeno più l’oceano. Poiché così come ci è apparso è stato il riparo di un momento, come per l’uccellino stanco è stato incontrare il vascello su cui ha riposato per poco, all’incrocio fra un parallelo e un meridiano qualunque nel mezzo del volo.
Il capitano lo sa che ci tocca tornare. E in fondo tornare è ciò che dobbiamo al mondo stesso. Voglio dunque tornare, scoprire come essere nel non essere. Ora che l’abitante è scomparso dalle strade vorrò poggiare il mio occhio e osservare quel vuoto. Vorrò sentire il silenzio dei vicini e degli sconosciuti, vorrò notare la mancanza dei cittadini dalle città, dei negozianti dai negozi, dei barisiti dai bar. Saremo tutti un po’ più simili ai morti. Non ha importanza, non mi fa paura, non ho mai avuto paura quando c’era da averne, figuariamoci adesso che la paura non è necessaria. E’ più il senso di avventura, quella sorta di adrenalina per l’ignoto, un friccicorio che sale per via dell’attesa e della speranza, perché un grande uovo cosmico, quello che aspettavo fin da bambinetta, si schiuda finalmente sopra le teste friggendo la parte di cervello male usata ed inutilmente, fino a che un tuorlo nuovo si manifesti e qualcosa di magico ci accada, risvegliandoci. Più che altro è ciò che mi preme.
A tal punto arrivo, a pensare che solo una catastrofe possa rigenerarmi e darmi nuova vita. Ma anche questa è un’illusione se resterò incapace di fecondare quell’uovo. Lo sforzo della cova ci spetta comunque. E dunque non serve la paura ma tutta l’anima si.
Tanto vale tornarsene a casa e saperla affrontare. Tanto mare non poteva lasciarci con più veridica densità. Tornarsene magari in quella poltrona di andata e nemmeno star a tentare una meditazione, nemmeno a riempire il tempo fermo coi libri, i musei virtuali, i giochi in tv, le serie su Netflix, i bricolage e la pittura fresca alle pareti. Non torno a casa per riempire il tempo vuoto. Vi torno per vivere il mondo che è diventato. Per sentirne la pienezza ora che l’uomo si è ritirato, per goderne come farei nell’approdo in un terra sconosciuta, dove se si batte moneta è un conio estraneo e per vivere occorre trovare il modo per adattarsi, magari scambiando perline dorate con del pesce affumicato o la vertebra di balena barattata a sua volta a Puerto Eden da un antenato degli Alacalufes per una consunta cerata Henry Llyod e un paio di stivali di gomma.
Ecco dove cerco il mio approdo. In un salotto vecchio che porta con se la polvere di tutte le case e di tutte le mie età che però non conosco più. Vado a visitare un posto nuovo che ha le sembianze di qualcosa con cui avevo confidenza in passato, come una persona che ne ricordi un’altra e viene da pensare che forse si, è lei, la stessa persona, ed invece poi non lo è. Così la mia città, come quando la neve l’aveva coperta una notte e al mattino si era messa a giocare al gioco delle finzioni e nessun cittadino era sicuro di riconoscerla e tutti andammo in riva al mare a lanciarci palle gelate che si scioglievano nel turchese del mare e non erano più fatte della sabbia che conoscevamo, ma di cristalli. Così il mio pianeta da cui non potrò scappare in eterno perché per amarlo occorre star fermi e guardarlo anche per quanto è brutto. Chè non sempre si può rifuggire la schifezza e starsene ciondolanti sulle rotte delle meraviglie, con i nasi per aria e le prue al gran lasco, incanalate fra Ande che affondano stupefacenti nello stretto di Ultima Esperanza dove il milodonte ha fatto leggenda e Francisco Coloane ne ha narrato l’intreccio. Chè non sempre si può stare a stupire gli stanziali con l’affabulazione dei naviganti, a incantarli con il racconto di isole mitologiche, fiori polinesiani di tiarè, conche segrete dove alloggiano cuccioli di lontra e Capi burrascosi sul cinquateseiesimo parallelo sud dove qualche barca si piega sul fianco del vento e i capitani segnano il passaggio forandosi l’orecchio o tatuandosi un braccio.
Ho voglia dell’esotismo del mio bagno, bello fermo, senza sbandamenti, della camera da letto, della mensola sopra il camino, di starmene a guardare dal balcone chi scappa col cane al guinzaglio per avere una scusa, di incontrare la mia cara amica fra i banconi del supermercato come fossimo spie nello scambio di informazioni segrete. Non c’è rimedio al mondo se non il piccolo pezzo di mondo in cui stiamo, orribile com’è, schifosissimo e insulso, noioso e banale, cattivo, logoro, venale. Le sue pure meraviglie lasciamole ai sogni, agli alieni, ai nuovi nati. Lasciamo qualcosa anche a loro.
Siamo stati anche noi nativi, primitivi speciali, occupanti spesso maldestri. Abbiamo tagliato ogni albero e non avendo avuto più legno per costruire canoe siamo rimasti inabili all’espatrio e ci siamo estinti. Siamo stati indigeni di terre australi, eravamo usi ad accendere fuochi per salutare i nostri morti e prepararci il nutrimento, ma ci siamo fatti catturare e siamo morti asfiassiati nei giardini zoologici della nostalgica borghesia parigina. Ci siamo mescolati e siamo diventati altro da noi e la nostra purezza è stata una categoria inventata col senno di poi. Abbiamo straziato le foreste e preso il posto agli uccelli. Se un pipistrello adesso vuol donarci il suo nemico interiore non si può che accettare. Lo spillover non è una scelta, ma consegue da ogni scelta compiuta.
I frutti puri impazziscono scriveva un antropologo americano alla fine degli anni Ottanta, e l’autentico è un invenzione. Un batterio alieno sta vagando nei nostri corpi e vuol dimostrarcelo. La vostra purezza è un’illusione, siete sporchi e germinali, fate a gara con ogni animale, intatti non lo siete mai stati, non lo sarete mai più. Forse è tempo di impazzire del tutto allora, di lasciarsi contaminare, di morire nei nostri letti e rinascere alati.
La mia barca arriva a momenti in un porto chiuso. Ci hanno dato delle chiavi speciali e saremo capaci di varcarne la soglia, seppur mascherati e con guanti di lattice. Faremo il nostro ingresso fra le lande degli spuri, attraverseremo i territori del contagio e raggiungeremo finalmente gli alloggi entro cui abbiamo accumulato la nostra vita e forse laggiù troveremo una tregua per ripensare ogni cosa, a patto però che ci piaccia questo nuovo viaggio in cui invece di partire si arriva.
18 marzo 2020, Mediterraneo nord occidentale
In questa categoria sono riuniti una serie di autori che, pur non facendo parte della redazione di Sardegna blogger collaborano, inviandoci i loro pezzi, che trovate sia sotto questa voce che sotto le altre categorie. I contributi sono molti e tutti selezionati dalla redazione e gli autori sono tutti molto, ma molto bravi.
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