Io a Sassari ho fatto in tempo a vivere gli ultimi giorni di un centro storico che non era quartiere ma città. E ora, con un po’ di fortuna, penso che potrò rivederne un ritorno. Parlo dei primi anni Sessanta del Novecento, quando ancora si allungavano nel tempo, tra quelle strade strette e quelle piazzette, le ultimi propaggini della Sassari tra le mura che aveva cominciato una lenta ma inarrestabile dissoluzione oltre un secolo prima. Voglio dire che ho visto una città ancora abitata da ricchi e poveri e non ancora una città dove i ricchi erano già tutti andati a Cappuccini (dove si respirava aria buona, come diceva qualcuno all’epoca) o nelle “appendici” che alla fine dell’Ottocento vennero onorate della edificazione di San Giuseppe, una chiesa tutta per loro, per la borghesia non più nascente ma trionfante che aveva spostato da quelle parti la sua residenza. E i poveri erano rimasti dentro il recinto ormai abbattuto delle mura, sino a esserne anche loro allontanati verso una periferia ancora più lontana, quasi una città a parte separata da ponti, monti e valli dove i nomi languidamente mistici di Latte Dolce o Santa Maria di Pisa non riuscivano a nascondere la rudezza di una strisciante ghettizzazione. Ma in quei primi anni Sessanta il centro storico aveva ancora una parvenza di ciò che deve avere una città, nel bene e nel male, per essere città: la convivenza di classi differenti e di attività differenti. C’erano le case di grande pregio abitate da famiglie ricche e importanti nel campo delle professioni, c’erano le case più modeste della piccola borghesia dell’impiego pubblico, c’erano le case piccole, dignitose e pulite degli operai che viaggiavano ogni giorno verso la nascente petrolchimica di Porto Torres o lavoravano nelle industrie del perimetro urbano, penso a esempio ai mulini Azzena, ai pastifici Pesce e Pirisino o a quelle aziende sempre attive di lavorazione del pellame nel quartiere delle Conce. C’erano le case degli artigiani e dei loro dipendenti, le cui botteghe, ancora numerose, si contendevano gli spazi ai piano terra con i negozi di ogni genere, tra i quali alcuni prestigiosi e alla moda che richiamavano acquirenti anche dai quartieri decentrati di San Giuseppe e di Cappuccini. E c’erano i sottani, le grotte malsane che si allungavano come cunicoli sotto i piani nobili e dove l’aria e la luce entravano da un’unica apertura che era la porta di ingresso. C’era un sottoproletariato “bianco” che allora, come ora il sottoproletariato “nero”, creava cattivi umori e allarmi. Era questo interclassismo che, ancora per poco, teneva vivo in quegli anni il centro storico: Miseria e Nobiltà, come nella della farsa di Eduardo Scarpetta il cui senso di comica teatralità è stato giustamente apprezzato da generazioni di spettatori, ma il cui profondo e forse inconscio significato sociale è stato sempre sottovalutato. Poi la diaspora diventò incalzante. I ricchi scomparvero quasi del tutto: soltanto poche famiglie continuarono ad abitare i grandi palazzi dove i segni della fatiscenza scoraggiavano da investimenti di conservazione e restauro, mentre restavano vuote molte altre dimore di una bellezza sconosciuta che sono ancora al loro posto, a testimoniare di un passato che può ancora essere recuperato, magari trasformandole in piccoli alberghi prestigiosi che sopperirebbero alla carenza di questo genere di strutture. E andarono via anche i meno ricchi, scoraggiati dalla decadenza delle case che abitavano e che nessuno risanava e incoraggiati dalle case nuove nel bel quartiere operaio del Monte o da quelle delle estreme periferie, presentate allora come “edilizia economica popolare”. Sembrava quasi, in quella metà degli anni Sessanta, che ci fosse un misterioso disegno per asfissiare il centro storico, una prosecuzione culturale dei diradamenti fisici del piano regolatore di Concezio Petrucci, che nel Quaranta si era arrestato a causa della guerra dopo lo sventramento che aveva formato l’attuale piazza Mazzotti. Ma l’idea era quella di abbattere praticamente tutto il centro storico, lasciando in piedi soltanto pochi edifici giudicati di particolare pregio, intorno ai quali si sarebbero dovuti incardinare nuove case e nuovi quartieri. E in fondo l’idea che a metà degli anni Sessanta informò l’operazione del Grattacielo Nuovo non era molto differente. E anche allora ci furono miracolose e impreviste sopravvenienze di carattere economico (per fortuna non fu necessaria una guerra mondiale) che bloccarono gli ulteriori “diradamenti” previsti. Ma il colpo letale fu assestato al centro storico dall’operazione Predda Niedda, la pietra nera che pesa cupa sul destino di Sassari. Si cominciò negli anni Settanta con la creazione di una zona industriale che, oltre a concentrare qualche grossa azienda, più che altro svuotò la città della sua ricca rete di attività artigianali. Avvenne nel volgere di pochi mesi e intere zone videro emigrare fabbri, falegnami, meccanici, idraulici, tappezzieri, mobilieri e tutti i meccanismi di quella pompa di sangue fresco che teneva in vita quartieri e case sulle quali i proprietari non investivano più. Gli artigiani se ne pentirono poco dopo, ingabbiati in una periferia povera di infrastrutture e malamente collegata con la città lontana dove abitavano i loro clienti. Ma il peggio avvenne negli anni Ottanta, quando la zona artigianale e industriale venne trasformata, di licenza in licenza, di deroga in deroga, in un immenso bazar. Fu un colossale affare al quale parteciparono trasversalmente la classe politica e quella industriale, specialmente gli industriali edili, i quali investivano nei nuovi capannoni sapendo che una provvidenziale licenza avrebbe consentito loro di venderli ai colossi della grande distribuzione. Fu la fine di un pezzo importante della classe dirigente cittadina, i commercianti, emblema del mitico terziario sassarese, falcidiati dalla grande distribuzione di Predda Niedda che tuttora riduce il centro di Sassari a un guscio vuoto, ma insieme desiderosi di sfuggire al disastro investendo nei piccoli spazi generosamente lasciati liberi intorno ai giganti mondiali che si erano insediati in questo grottesco simulacro extraurbano di città. Se ora ci sarà un’inversione di tendenza, fatto piuttosto probabile, questa non sarà dovuta al coraggio e all’iniziativa della classe dirigente cittadina ma a fatti oggettivi. Primo dei quali la crisi mondiale dei grandi centri commerciali provocata da una nuova cultura e da nuove dinamiche del commercio, in sostanza dal commercio per corrispondenza. A questo si unisce il riempimento abnorme degli spazi della zona industriale e il progressivo svuotamento di uso e di valore dei capannoni, ciò che induce gli impresari edili a cercare nuove forme di investimento, una delle quali è senz’altro il recupero dell’esistente. Tutto, insomma, fa pensare che anche a Sassari, magari in ritardo rispetto ad altre città, ci sarà un ritorno riabitativo e commerciale del centro storico. Al quale bisogna prepararsi investendo in quella che appare la più produttiva, redditizia e utile attività del futuro: la cultura. Si pensi soltanto a come la sinergia tra spazi che hanno eroicamente resistito all’abbandono, quali il cinema multisala Moderno, il Teatro Verdi e il Teatro Civico, tutti in pieno centro storico, abbiano tenuto vivo in quelle vie un flusso di persone e di interessi che aiuterà la città vecchia a sopravvivere sino al ritorno a una vita piena.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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