Bravi tutti. Davvero. Ma il mattatore è Mario Lubino. In questo nuovo Feydeau della Compagnia Teatro Sassari ha mostrato con il suo Murenu (Moricet nel testo originale) tutta la sua matura sicurezza attoriale, ma anche la naturale genialità interpretativa nella gestione dell’estemporaneo. Se i testi di Georges Feydeau, qual è questo “Quando il marito va a caccia”, come tutti sanno sono una “macchina costruita per fare ridere”, Lubino ne è un manovratore perfetto ma pure creativo. Al “Parodi” di Porto Torres e al Teatro Civico di Sassari sono state quattro serate piene: di pubblico e di allegria condivisa nel gusto di un testo classico apparentemente elementare nei suoi meccanismi eppure di difficile resa. A parte il generale assioma che il comico è più difficile del tragico, Feydeau tra i comici è particolarmente difficile. Le sue commedie hanno l’apparente fluidità spontanea della commedia dell’arte, ma sono in realtà veri e propri spartiti dove l’effetto comico è calibrato con matematiche cadenze che richiedono abili direttori d’orchestra e abili esecutori. E, in qualche caso come quello della Compagnia Teatro Sassari, artisti che uniscano le due abilità, come hanno dimostrato anche nell’altra farsa di Feydeau del loro repertorio, il grande “Sarto per signora”. Feydeau è stato nella seconda metà dell’Ottocento sino alla sua morte nel 1921, l’ultimo e più grande autore di vaudevilles, genere da lui prelevato dal fondo disordinato e superficiale del genere umoristico parigino e consegnato al classico. C’è chi lo ritiene il massimo esponente del teatro comico francese insieme a Molière. Le sue vaudevilles, come questo “Quando il marito va a caccia” sono deliri dal movimento sincronico di un carillon, un pullulare di caratteri ben definiti che si incrociano a velocità vorticosa senza farsi male quando si toccano nei calibrati scontri. Sono una continua messa alla prova per gli interpreti in perenne movimento, sospinti da regie che devono necessariamente spremerli, impietose nell’allestimento di un testo che non ammette pause. E la regia di Alfredo Ruscitto anche in questo senso è stata magistrale: ha calibrato movimenti e parole in un meccanismo scenico che non ha mostrato sbavature. Ottima anche la sua intepretazione dello zio Guglielmo (Gontran nel testo francese), ozioso e stoccatore, una delle maschere ricorrenti del teatro di Feydeau. Ma una volta detto di Lubino, molto andrebbe detto di Alessandra Spiga, la bravissima Ludovica (Leontine) intorno alla quale ruota la vicenda di mariti fedifraghi falsi cacciatori e di impenitenti veri cacciatori di donne. Alessandra Spiga ha mostrato un altro dei suoi numerosi registri recitativi, quello dell’umorismo borghese autoironico, della satira carica di impalpabile malinconia per l’evidente decadenza di una società costruita su corna, falsi affetti e false ricchezze, comiche disperazioni e languidi abbandoni, incredibili ingenuità che mascherano impudiche malizie, tutto ciò insomma che l’attrice rende sans cesse, canterebbe Trenet, senza un attimo di respiro, nella vorticosa tarantella francese con movimenti repentini, magistrali effetti vocali che citano lo stile classico, uniti alle necessità di una contenuta, parziale ma efficacissima reinterpretazione dialettale di questa farsa. Emanuele Floris è un ottimo Passino (Duchotel), un po’ scemo e un po’ marpione, modernissimo e classico insieme, anch’egli, in una recitazione dove molto è affidato al movimento, oltre che ai timbri. Un cammeo è poi la Contessa la Torre interpretata da Margherita Nurra, dignitosa e irresistibile ruffiana da bordello che tra l’altro, nel secondo atto, sostiene con l’irrefrenabile Murenu di Mario Lubino un serrato contradditorio che costituisce uno dei migliori momenti comici della commedia. Ottima anche la prova di Paolo Colorito, il commissario Brignano (Bridois), compassato e tartassato poliziotto alla caccia burocratica di adulteri. E ha fornito un bel saggio di carattere Claudio Dionisi, al quale è affidato il personaggio di Cassano (Cassagne), figura tutto sommato ambigua di cornuto felice e vendicativo alla quale il giovane Dionisi attribuisce toni e colori di ottimo livello. E come sempre bravo, in ogni piccola o grande parte, Michelangelo Ghisu, qui chiamato a interpretare il maggiordomo nel primo e terzo atto e uno sbirro di Brignano nel secondo. Tutto bene, quindi, anche la scenografia classica di Vincenzo Ganadu e le luci e i suoni di Marcello Cubeddu, così come i costumi di Arrigo-Teresanna Senes, costumi che in questa vorticosa farsa con cambi in scena e ripetute ostentazioni di comiche mutande, hanno anch’essi parte importante. Unico (giocoso) peccato: Mario Lubino ruba sfacciatamente la scena. Nei pochi momenti dove dovrebbe per un attimo stare in un angolo mentre altri gestiscono il palco, è talmente espressivo nella sua provvisoria comprimarietà da convogliare l’attenzione verso di lui anche se tace. Ma ai bravi attori si perdona tutto.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
Renatino e i misteri di Roma (di Giampaolo Cassitta)
Cara Cora (di Francesco Giorgioni)
The show must go on (di Cosimo Filigheddu)
Vincerà Mengoni. Però… (di Giampaolo Cassitta)
Ero Giorgia, e ricanto. (di Giampaolo Cassitta)
Piacere, Madame. (di Giampaolo Cassitta)
Se son fiori spariranno (di Giampaolo Cassitta)
Ma Sanremo è Sanremo? (di Giampaolo Cassitta)
Pacifisti e pacifinti (di Simone Floris)
Lo specchietto (di Salvatore Basile)
Da San Gavino a San Cristoforo, quando colonizzammo il Villaggio Verde. Ovvero il trasloco (di Sergio Carta)
Se riesco a buscare 5000 Lire ci vediamo allo Zoom, ovvero le pomeridiane in discoteca degli anni’80. (di Sergio Carta)
Papa Fazio (di Cosimo Filigheddu)
sardegnablogger ©2014 created by XabyArt - graphic & web design