Una die de sa Sardinnia kentza de limba.
Un’átera.
Ma andatevene in barchetta, andatevene!
Se qualcuno mi chiedesse se sono a favore di uno “stato sardo” gli risponderei con la domanda: “Di che cazzo stai parlando?”
Non vorrei una Repubblica Islamica Sarda e non vorrei neppure un Rennu de Sardinnia, né con i Savoia a loro capo, né con i Serra-Bas.
Vorrei una Sardegna che costituisse uno stato di diritto, in cui le libertà politiche, economiche e i diritti civili siano garantiti per tutti, ma non mi farebbe assolutamente schifo l’idea di far parte di una federazione di stati o regioni–per esempio, un’Europa molto diversa da quella attuale–in cui queste libertà e diritti venissero garantiti anche per i Sardi.
Se poi la domanda fosse diretta a capire che rapporto vorrei tra Sardegna e Italia–domanda ben diversa–risponderei che l’Italia non è uno stato di diritto–come stiamo vedendo in questi giorni–che non a caso calpesta i nostri diritti e ignora le nostre necessità e che prima ridefiniamo il nostro rapporto con essa meglio è, dove “ridefinire”, data la situazione disperata della democrazia in Italia, è praticamente sinonimo di “recidere”.
“Ma, allora”–continuerebbe il mio interlocutore–vorresti lo “stato sardo”!”
Non necessariamente–io non sono così fissato con quel feticcio burocratico–si potrebbe partecipare a una specie di Confederazione Mediterranea, all’interno di un Europa diversa, di cui potrebbero far parte anche Catalogna, Corsica e chissà che altro ancora.
Per me la questione della fondazione di uno stato indipendente costituisce un falso obiettivo, un feticcio che ha l’effetto di distrarci da quello che è il nostro obiettivo vero: arrivare a una Sardegna che sia governata da Sardi.
“Ma–direbbe il mio interlocutore–la Sardegna è già governata da Sardi, che governano in nome dell’Italia e per farne gli interessi.”
Sappiamo bene che le cose non sono così semplici come le pone il mio interlocutore.
Esiste, a partire dalla battaglia di Sanluri, un patto tra dominatore straniero e classi dirigenti sarde: Il mito di fondazione della borghesia compradora sardignola
Prima ancora che l’Italia, il problema della Sardegna è costituito da queste classi dirigenti, alleate da sempre con il dominatore straniero.
E questa borghesia compradora esprime da sempre–da quando esiste la democrazia–i politici che governano la Sardegna, sì, è vero, per conto dell’Italia, ma anche per conto dei vari printzipales sardi.
E sono i printzipales che, con l’apporto fondamentale dell’Italia, hanno impedito che i Sardi diventassero una nazione, cioè una comunità di individui legati gli uni agli altri da un patto di buon vicinato, che implica la solidarietà reciproca, una cultura e una lingua–ma qui bisogna precisare bene, non necessariamente adesso– e una storia condivisi, oltre alla coscienza di avere un destino comune.
Come vedete, propongo una definizione interamente culturale e sociale di nazione: la nazione è l’esistere tutti assieme dei buoni vicini.
Niente a che fare con il blut und boden dei nazisti.
E lo “stato sardo”?
Tutto dipende da quello che si intende per “stato” e da quello che si intende per “sardo”.
Se per “sardo” si intende uno stato governato da politici anagraficamente sardi, mi sembra che non si farebbe un passo avanti rispetto alla situazione attuale.
Basta vedere in che razza di casini sono sprofondati quasi tutti gli stati nati dalla decolonizzazione e che si sono limitati a sostituire la classe dirigente coloniale con politici provenienti da quelle classi sociali che mediavano tra colonizzatore e il resto della popolazione.
Se per “stato sardo” si intende l’organizzazione del potere all’interno della nazione sarda–questa definita come qui sopra–allora stiamo parlando di qualcosa di profondamente diverso.
A governare la nazione sarda ci sarebbero delle persone profondamente diverse dalle attuali classi dirigenti sarde.
L’ho già detto tante volte: scorciatoie verso l’indipendenza non ne esistono.
L’indipendenza politica passa per l’indipendenza psicologica, che passa per l’indipendenza culturale, che passa attraverso l’indipendenza linguistica.
Sedda & Maninchedda sono liberissimi di proporci i loro sconti di fine stagione, con l’indipendenza che è li dietro l’angolo–ma a miei tempi la chiamavamo “rivoluzione. Toh! Anche loro!–e con “la lingua questione parziale, benché rilevante”.
Questo, però, si chiama mettere il carro davanti ai buoi, perché–e lo capisce anche un bambino–per arrivare all’indipendenza in modo democratico, bisogna conquistare la coscienza della metà dei Sardi più uno, e questa coscienza non basta la crisi economica a dartela, come ci ha ricordato lo stesso Maninchedda.
E allora?
E allora se si vuole fondare lo stato sardo–e io ho paura che con questa Italia non abbiamo scelta–bisogna prima costruire la nazione sarda–cioè la cultura nazionale della Sardegna–e non far finta che la nazione sia un dato naturale e assodato.
No cari Paolo e Franciscu, l’anagrafe al massimo ti rende sardignolo, non sardo.
L’identità, cioè l’appartenenza o meno a una comunità, ti è data dalla pratica a cui aderisci, da quello che fai e non da un estratto dall’anagrafe.
What about Judith Butler?
E se non riusciamo ad essere nazione–comunità di buoni vicini con un destino comune–lo stato sardo ce lo possiamo dimenticare.
Al massimo potremmo ambire a uno stato sardignolo: no thanks!
P.S.: articolo di due anni fa, ma, se possibile ancora più attuale.
In questa categoria sono riuniti una serie di autori che, pur non facendo parte della redazione di Sardegna blogger collaborano, inviandoci i loro pezzi, che trovate sia sotto questa voce che sotto le altre categorie. I contributi sono molti e tutti selezionati dalla redazione e gli autori sono tutti molto, ma molto bravi.
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