Nella mia città c’è un campo rom da circa trent’anni. Il fatto che, soprattutto tra donne, spesso ci raccontiamo come stiamo o conosciamo i reciproci nomi e spesso qualche segreto giocato sui palmi delle mani, non significa affatto che loro siano diventati come noi. Sono rimasti rom stanziali, e vivono di carità. I loro bambini hanno frequentato e frequentano la scuola, godono di legittima assistenza medica. Quando gli uomini non stanno cercando rame o oziando, e le donne non girano per le strade, non li si vede neppure. Scompaiono. Parlano con noi la nostra lingua perfettamente, e basta. Scordiamo spesso che il nostro tailleurino fuori moda e dismesso che con gesto di generosità regaliamo a qualche ragazza rom non verrà mai indossato. E neppure un televisore al quale sono partite le valvole, verrà usato dalla comunità rom dopo essere stato portato loro con il semplice intento di liberarsene, mascherando il gesto col sorriso della bontà. Ebbene, tv, frigoriferi, poltrone con le molle saltate, materassi pisciati dai nostri figlioletti o dai nostri anziani, o da noi stessi, biciclette senza ruote, eccetera, vengono portati al campo dai miei concittadini. I rom poggiano il tutto contro il muro della loro casa – un tempo lì c’era il macello, e non è più come una volta proprio periferia – sapendo che il servizio di raccolta dei rifiuti passerà il giorno tale. Ma il giorno tale il servizio non passa, e forse neppure un altro giorno tale. Di fatto è capitato un mese fa circa, che i rifiuti nostri, spacciati per i loro, siano stati oggetto di rivolta espressa su una pagina FB dedicata alla città che pare sia anche mia. Un’occhiata a tale pagina io la getto raramente, perché ho paura, perché so chi ci troverò, ma soprattutto perché temo di trovarci qualcuno che mai avrei voluto scoprire lì. Ho sinceramente paura di leggere commenti che mi lasciano calva, che, dopo, mi vietano di passare in una determinata strada, o entrare in un negozio, un bar. I commenti sulle pagine cittadine hanno volti e spesso rapporti d’amicizia non virtuale. E così la mattina che lessi l’astioso post contro il degrado del campo rom qui in città, la prima cosa che pensai fu, Io con questo ragazzo sempre cortese ho lavorato in alcune occasioni. Poi ho letto i commenti ormai perfino poco originali “Ci rovinano la città” “Cacciamoli via” “Benzina” e acclamazioni varie da parte di qualcuno e qualcuna con cui ho perfino cenato. Calva sì, stavo diventando, e lo sono diventata del tutto quando un ragazzetto moccio al naso ha digitato a caratteri cubitali “Attrezziamoci di molotov ed eliminiamoli”. Bene, ho atteso qualche istante in attesa di una rivolta civile del popolo quasi tutto nato sotto le stelle che vedo io. Niente. Dunque ho scritto un commento con il nome e cognome dell’ultimo intervenuto, aggiungendo, Sei disposto a ripetere parola per parola di fronte a un Commissario di Polizia quanto appena affermato? Silenzio. Non ho fatto in tempo a copiare tutto il verde della bile di quei troppi miei concittadini che l’intera pagina era cancellata. Ecco, so di più, adesso, dell’apparente apatia di una città. Meglio sapere, per questo non banno mai nessuno.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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