A me mi fa ridere questa faccenda di Cagliari che fa le scarpe a Sassari fregandole la legittima. Non perché sia una balla. Anzi. E osservo pure che la sinistra ai governi locali degli ultimi anni, con tutta la sua pudibonda e politically correct ritrosia a parlarne, ha fatto una pessima figura. Rido più in generale perché sembra che stiamo parlando di un continente (“quasi”, specificò lo scrittore e poeta Marcello Serra) e non di una regione lunga 270 chilometri e larga 145. Cioè misure che se colmate da una organizzazione dei trasporti interni quanto meno a livelli di civiltà post nuragica, potrebbero stravolgere i termini della questione. Io credo cioè che se non ci fosse stata nei decenni l’incapacità di avvicinare tra loro Sassari, Olbia, Cagliari, Nuoro e Oristano, ora non ci sarebbe il problema della distribuzione squilibrata delle risorse. Pensate che l’unico passo in questo senso fu fatto ormai diverso tempo fa dal deprecato Carlo Felice con la strada eponima e nei successivi duecento anni, più o meno, non è stato fatto niente di altrettanto incisivo in merito. Sarebbe molto più semplice spargere equamente servizi, lavoro e cultura tra luoghi vicini. E quindi, per dirne una, parliamo di continuità territoriale con lo stesso costrutto e minore gioia di un lavoretto solitario da cesso buono per giovanetti di tredici anni, e in un secolo e mezzo non siamo riusciti a farci una ferrovia decente, dopo che i Savoia ci hanno deforestato la patria sarda, cambiandole il volto in peggio, anche per costruire traversine da binario per tutti eccetto che per noi. Bah! Trasporti interni, quindi. La prima volta che sono salito su un aereo è stato su un Fertilia-Cagliari. Avrò avuto nove o dieci anni. Quindi a tipo primi anni Sessanta. E fu emozionante perché i nostri spostamenti interni allora erano al massimo con le corriere della Sita. Dunque, era successo che mio zio avesse deciso di portarmi con sé in una spedizione al Sud, certamente in giornata. Evidentemente Alitalia allora aveva anche questa linea, che doveva essere piuttosto cara, ma il mio parente doveva avere avuto dei biglietti in omaggio, altrimenti non avrebbe speso soldi per portarsi un nipotino al seguito. Se ricordo vividamente certi particolari di questo umbè di tempo fa, significa che l’avventura mi ha segnato. Eggià. Tieni presente che allora nel mio perimetro economico familiare si viaggiava poco e non tra i lussi. Avevo già fatto con babbo e mamma un paio di andate in Continente. In piroscafo. Credo i vari “Città di Nuoro” e “Città di Cagliari” della Tirrenia di allora. Cabine di seconda classe e un tale del personale di bordo che all’alba picchiava sulle porte con un grossa chiave urlando “Civitavecchia!”. Voleva dire di sollevare il culo dal letto e di recarsi al bagno comune del corridoio e uscire poi sul ponte, dove il bambino Filigheddu aveva l’emozione di vedere disegnarsi a poco a poco nella nebbiosità dell’alba la linea di una terra sconosciuta che veniva fuori da un mare così grande, misterioso e diverso dalle onde di Platamona o la banchina di Cannigione in capo alla quale pensate un po’, in quegli anni ci trovavate ancora le gnacchere. Magari la colazione al bar era con Buondì Motta secco (mi sembra che già esistessero) ed era anche questo uno straordinario segno di lusso per gente abituata a fare colazione con la zuppa di caffellatte e pane avanzato dal giorno prima. Figurati quindi come mi sentii signore (signorino, anzi), su questo aeroplano e in questo viaggio di cui ricordo due o tre particolari. Il primo, le grandi eliche. Non avevo mai visto da vicino uno di questi apparecchi e naturalmente mi chiesi come un affare così gigantesco potesse stare in aria. Poi il lusso di bordo. Dopo il decollo (che non ricordo, evidentemente non fu particolarmente emozionante), una signorina mi chiese che bibita gradissi. Abituato a un certo rigore familiare in prossimità di bar o altri spacci, guardai interrogativamente mio zio che mi rispose con un sorriso di incoraggiamento e mi borbottò -E’ gratis. Allora chiesi un’aranciata. E me la feci durare tutto il viaggio. Anche se poi appresi con un certo disappunto che se me l’avessi bevuta tutta di un sorso e ne avessi chiesto un’altra, la signorina non avrebbe fatto storie. Insomma, i miei contatti con il viaggiare di lusso posso dire che li ho avuti. A esempio a 18 o 19 anni, quando passai un’estate tra Milano e Roma ospite di amici e conoscenti. Di Milano ricordo un lungo periodo da abusivo nella Casa dello Studente di viale Romagna, pellegrino da una stanza all’altra lasciate vuote e a disposizione da studenti in vacanza. Ma per andare a Roma avevo in tasca un tesoro che mi aveva dato mio padre, che era anche medico delle Ferrovie: un biglietto per un treno di lusso, forse proprio il Settebello (fine anni Sessanta, non so se esistesse ancora o se avesse cambiato nome). In stazione chiesi dove trovarlo e ci feci l’arrembaggio come ero abituato a fare su ogni treno per occupare il posto prima che me lo fottessero. Rimasi un po’ stupito perché non c’era nessuno e non c’era reticella per lo zaino e inoltre le poltrone erano disposte a cerchio intorno a un tavolo rotondo, come in un ristorante o in un caffè di lusso. Comunque mi sedetti nel vagone stranamente deserto sino a quando non arrivò un ferroviere con una divisa da ammiraglio e una grande e sussiegosa faccia di cazzo. Mi chiese di mostragli “il documento di viaggio”. Io gli risposi che avevo solo la carta d’identità. Lui, sprezzante, chiarì che voleva vedere il mio biglietto. Quando glielo diedi, apparve stupito che davvero avessi un documento di viaggio per quella babilonia di treno e mi spiegò che dovevo scendere, mostrare il documento a uno degli addetti che si trovavano in banchina accanto al treno e questi mi avrebbe ordinatamente accompagnato alla poltrona il cui numero era indicato sul mio biglietto. Tu dirai, hai fatto una figura del cazzo. No, invece la figura l’aveva fatta l’ammiraglio perché quando fu concluso tutto l’ambaradan, mi ritrovai seduto nella poltrona accanto a quella su cui mi ero casualmente sistemato poco prima urlando “occupato!”. Bastava che quello lì guardasse il biglietto e mi dicesse di spostarmi. Il brutto fu per lo zaino, che viaggiò in un bagagliaio irraggiungibile durante la corsa. Io ero lì in questa sorta di saletta con le poltrone intorno al tavolo rotondo, circondato da signore e signori che leggevano e parlavano a bassa voce, quando arrivò un cameriere che apparecchiò il tavolo con tovaglia e tovaglioli e prese le ordinazioni per il pranzo. Cioè, in quel treno non c’era un vagone ristorante. Era fatto in modo tale che all’ora dei pasti si trasformava tutto in vagone ristorante. Io stavo morendo di fame e pensai con dolore ai panini che avevo nel mio zaino prigioniero del bagagliaio. Quando arrivò a me, il cameriere mi osservò con comprensione e mi avvertì a mezza voce –Le consumazioni non sono comprese nel biglietto. Poi, con tono indifferente -Cosa gradisce per primo? -Non mangio, grazie. I vicini ordinarono primo, secondo, frutta e dolce. La bagassa loro. Mi mangiavano in faccia. Ricordo in particolare un piatto di tagliatelle al ragù il cui profumo era la vera prova dell’esistenza di Dio. Insomma. Come vedi, tra aeroplani, navi e treni, anche io il dito nella marmellata l’ho intinto. E comunque, con tutto il rispetto per questi collegamenti aerei interni che non si decidono a mettere, ti dico che se collegassero la Sardegna al resto del mondo con voli frequenti e a prezzi accessibili (tipo Ryanair, se posso nominare il nome di Dio invano senza finire lapidato), io sarei più contento.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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