Sono tra quelle signorine che da piccole ne hanno buscate assai dalla propria madre. Il motivo di certe legnate mi risulta ancora ignoto. In un certo senso mi puniva la felicità quanto l’immaginazione. Tentava di sopprimere le mie storie avventurose, come quella volta in cui – per farle conquistare un re che la sposasse – feci restare una mia coetanea di sei anni per un intero pomeriggio d’estate su un gradino d’uscio rivolto alla strada. Mutandine abbassate e vestito sollevato fino alle ascelle. Io non restai a farle compagnia perché dei re me ne infischiavo. Qualche nullafacente notò e spiò a due madri la magnifica scenetta. Alla mia compagnetta era bastato pronunciare il mio nome. Mamma mi raggiunse mentre riflettevo – al fresco del cortile di nonna – su cosa fare il giorno seguente. Si ruppe sulla mia innocente schiena, il manico della scopa. E adesso ditemi come potevo venir su “normale” se così incompresa! Quella cretina, di re non ne ha trovato per tutta la vita: ben le sta.
Questi episodi del mio passato giungono dopo aver sentito dire allo scrittore Antonio Moresco che ciascuno di noi trasporta senza scampo il cadavere di se stesso fanciullo. È affermazione che toglie il sonno, e poiché io in analisi non ci andrò manco morta, provo con questo fai da te a ordinare al cadaverino, Resta sveglio o morirò con te. Quindi scavo nella memoria, evitando con cura di fare il salto che potrebbe scoperchiare l’inconscio. Quest’ultimo, se creato per essere segreto, così deve restare, a costo di vedersi irrisolti tutta la vita, fanculo. Mi manca solo di scoprire di essere stata violentata dal cane del vicino quando avevo due anni! No no. Basta e avanza ciò che ricordo limpidamente. Ad esempio l’obbligo alla scuola, a me! che fino a quel lontano e preciso periodo avevo vissuto da selvatica e all’improvviso m’ero ritrovata intabarrata in un grembiule nero e colletto bianco e fiocco azzurro, agli ordini di una stecca vedova fresca con malsangue da spargere su noi chine ai lavori forzati su un banco scuro quanto una bara. Faticoso perfino salirci per la scimmietta io, che forse misurava 50 cm. allungando il collo. Però ad imparare a leggere e scrivere mi arresi, dopo mesi – due palle! – a fare aste e cornicette sul quaderno (anche lui con copertina nera color bara). Un poco riuscirono ad ammaestrarmi e anche a incuriosirmi verso quegli oggetti magici detti libri. Là dentro pascolavano le storie che fino ad allora erano state solo nel mio cervellino da primate. Pur recalcitrante fui un’alunna abbastanza diligente: quanto bastava, perché gli affari miei sinceri mai e poi mai li avrei confidati a qualcuno. Imparai a memoria la prima poesia: adesso non la ricordo, rimossa come un coccodrillo, nascosta nell’inconscio e sotterrata sotto cemento armato, a causa di ciò che mi costò la vanità di credermi “imparata”. Quel giorno famoso, tornai a casa con la poesia sfarfallante in mezzo ai miei dentini da latte. Pranzai. E poi, ancora non so spiegarmi che accidenti mi venne in testa, ma me ne andai nell’angolino a me destinato per le riflessioni, presi una penna e trascrissi la poesia sulla mia coscia sinistra. Perché non la destra?, mi domanderebbe un analista, Scoprilo tu!, risponderei. Che cosa posso dire, adesso, trascorsi tanti anni? Un tatuaggio che presagiva il mio destino? Non lo so. Però le voglio bene a quel cadavere di bambina che porto abbracciata al collo, soprattutto rivedendola correre da mamma per mostrarle quanto brava fosse la sua scimmia. Lei forse era stanca, molto stanca. Mi guardò la coscia, non parlò, mi prese per i capelli e mi rinchiuse in bagno, al buio. Anche le madri sono donne con misteri, giusto? In bagno, a tentoni e in lacrime gelide, svuotai la scarpiera. Misi le scarpe della famiglia una sull’altra, per salirci e raggiungere l’interruttore ancora troppo in alto per me. Ho nitido in testa il suono delle scarpe che precipitavano assieme alla mia paura. Almeno dieci volte. Rinunciai. Trovai il bidet, il sapone, e mi raschiai la coscia a sangue. Poi fui liberata. Il silenzio ha molti suoni, per me fu quello di un pulsante nel cervello da lasciare spento. Da allora a memoria non volli mai più imparare niente. O meglio, di cose ne imparai ma la voce non volle più essere fiera nel pronunciarle. Un analista non mi toccherà mai. Sarebbe come un prete che mi dà l’estrema unzione. Ad ogni modo sono venuta su più alta in statura di Grazia Deledda
In questa categoria sono riuniti una serie di autori che, pur non facendo parte della redazione di Sardegna blogger collaborano, inviandoci i loro pezzi, che trovate sia sotto questa voce che sotto le altre categorie. I contributi sono molti e tutti selezionati dalla redazione e gli autori sono tutti molto, ma molto bravi.
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