Lo scrittore Antonio Moresco ha recentemente spifferato a tutti che la sua favola preferita, da piccino, era La piccola fiammiferaia. La mia era invece La sirenetta (un’altra che diventa tonta per amore). In questa autoanalisi che mi impongo, così da risvegliare la sottoscritta bambinetta cadavere, voglio usare il bisturi fino al fondo della memoria antica, e parlare della mia ossessione amorosa per il mare che rischia di divenire suicidio quest’anno con l’impietoso ordine medico, Se lo scordi, acquisti un paio di pinne, la maschera e il boccaglio e si accomodi nella vasca da bagno di casa sua. I dottori non hanno pietà alcuna. Ridono, ignari del mio passato. Senza il mare io mi spengo, per lui sarei disposta a svendere la Grecia e perfino a coniugarmi con un razzista omofobo carnivoro che mi obbliga a sgranare rosari prima e dopo i doveri di letto. Potrei perfino barattare mia madre con un secchiello e le formine. Babbo faceva il mezzadro, conosceva i venti e le nubi che avrebbero potuto distruggergli in pochi istanti giorni interi di zappa e schiena curva. Lui mi ha insegnato il cielo. Mamma gestiva una minuscola frutteria. Lei mi ha insegnato che esistono luoghi dove le persone si raccontano e anche piangono accanto ai grappoli dell’uva. Entrambi mi hanno insegnato che può capitare di non poter andare al mare, perché non c’è denaro né tempo da perdere. E che dal cielo soltanto noi dipendevamo. Io, fino ai 17 anni, il mare che mi vive tanto accanto lo vidi soltanto le rare volte che mamma dava a me e alla mia sorella grande i soldi per l’autobus e il ghiacciolo. Rare mattine, nelle quali neppure facevo in tempo a scendere dal mezzo e già ci risalivo. Dai 6 anni ai 17 facevo due cose utili da ricordare per comprendere l’evoluzione della mia crescita: mi conficcavo le unghie nelle braccia e nelle gambe, mi stracciavo la pelle, affinché sembrasse spellatura di sole. L’altra è che staccavo il bollino Chiquita dalle banane del negozio di mamma per separare le sopracciglia l’una dall’altra. Ero una lupacchiotta. Al mare si va, anche se non si va, senza peli. Potrei anche ricordare che possedevo un costume intero di lana lavorata ai ferri. Rosso. Bel colore. Però babbo noleggiava un taxi per Ferragosto. Il proprietario si chiamava Arraighèdda. Forse adesso è morto. Raggiungevamo il paradiso per un giorno intero e per una sola volta in 12 mesi. Babbo, cotto da altro sole, si scopriva solo le caviglie e toccava la riva. Non mi insegnò a nuotare. Infatti non so nuotare. Mamma candida si aragostava solo a scendere dal taxi. Mamma sotto l’ombrellone in vestaglietta non la dimenticherò mai. Mamma al mare meritato non la dimenticherò mai. Quel luogo, ora che posso raggiungerlo quando voglio, conserva ancora le tracce di scarse giornate speciali per chi la paura della povertà la combatteva a testa alta.
Savina Dolores Massa
(continua….)
In questa categoria sono riuniti una serie di autori che, pur non facendo parte della redazione di Sardegna blogger collaborano, inviandoci i loro pezzi, che trovate sia sotto questa voce che sotto le altre categorie. I contributi sono molti e tutti selezionati dalla redazione e gli autori sono tutti molto, ma molto bravi.
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