Tutto ho sentito dire in questa era del trionfo della superficialità, anche che il postumo “Riccardino” di Andrea Camilleri è come il postumo “Il gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Eppure dovrei farne parte, di questa era: figuriamoci, ho fatto il giornalista per tutta la vita e di superficialità me ne intendo. Ma evidentemente ora è troppo persino per me. Se devo imbarcarmi in confronti su “Riccardino”, che ho finito di leggere stanotte, mi spingo al massimo agli altri della serie di Montalbano, trovando i “classici” della grande saga poliziesca molto più belli, dignitosi, interessanti, nuovi e appassionanti di quelli più recenti, dove si sono iniziati l’autocompiacimento, l’autocitazione, le banalità socio-filosofiche pronunciate o pensate dal commissario e riportate dagli esegeti come esempi della profonda e originale weltanschauung dell’autore incarnato del personaggio; il tutto condito dai ripetitivi teatrini, con tanto di porta sbattuta, del Catarella buono e cretino; dal Mimì noiosamente arrettu (uso il sassarese, la mia prima lingua dell’anima, l’altra è l’italiano, per trovare il coraggio un po’ volgare di chiamare non soltanto le cose ma anche i personaggi con il loro nome): niente di più è rimasto di lui rispetto agli aspetti un po’ più performanti dell’Augello dell’inizio e d’altro canto anche il cognome del personaggio mi sembra vagamente evocativo; dal Fazio-Rintintin; dalla Livia che con tutta la sua altera indipendenza è un’Andromaca alla quale nessuno ha trovato il coraggio di dire che Ettore è morto alcuni anni fa. Cioè da tutto ciò che ha contribuito notevolmente al successo popolare della serie. E non c’è niente di male a usare questi espedienti per continuare a vendere tante copie e dilatare, sin quasi a scoppiare come la rana di Fedro, l’epopea vigatese che resterà senz’altro nella storia della letteratura poliziesca. Ma in quella e basta. Non paragonate la statura di una bravo scrittore come Camilleri e quella di un gigante della letteratura mondiale come Tomasi di Lampedusa. La cosa mi ha colpito perché mi sono ricordato di un’intervista che qualche anno fa Camilleri concesse a Micromega (non ne ricordo l’autore), nella quale diceva che Tomasi di Lampedusa era superato e che, lui, istintivamente, lo considerava uno scrittore dell’Ottocento e non del Novecento, forse perché raccontava della Sicilia di Garibaldi. In quel momento, leggendo quell’intervista, ebbi la percezione che, nei miei gusti senz’altro discutibili, Camilleri era a sua volta superato, non potevo ormai trovare niente di interessante, a parte la sola affascinante serialità di Montalbano, in un autore che giudicava obsoleto un suo collega che mi aveva fatto riflettere sui temi della decadenza e tuttora mi fa riflettere come soltanto Gogol, Dickens, Flaubert, Joseph Roth e altri così riescono a fare. D’altro canto anche Tomasi di Lampedusa e il suo Gattopardo sono vittime di superficialità: siamo tutti convinti che il senso profondo sia nella frase “bisogna che tutto cambi perché tutto rimanga com’è”, mentre la tesi del romanzo è opposta, impegnato com’è, in ogni sua magnifica riga, a raccontare la decadenza, la morte e la dissoluzione di un mondo. Ci sono illustri precedenti, anche di Machiavelli dicono che la genialità consiste nella scoperta che in politica e nel governo “il fine giustifica i mezzi”, concetto che il fiorentino, se qualcuno glielo avesse detto, avrebbe bollato come non etico. Continuai quindi a seguire le storie di Montalbano ma, ormai, con lo stesso spirito con il quale seguivo Dylan Dog, “Un medico in famiglia” e, più recentemente, “Downton Abbey”, cioè eventi artistici di natura letteraria e televisiva nei quali il principale richiamo consiste nel rassicurante ritrovamento a ogni puntata di personaggi, battute, caratteri, psicologie, situazioni ed eventi già noti, stuzzicando la pigrizia dell’utente con il metodo della serialità. Una volta, ai tempi delle polemiche sulle censure al “Codice da Vinci” di Dan Brown, venni intervistato, non so perché proprio io, dalla redazione culturale di una radio. Una signora, dopo avere registrato che giudicavo stupide quelle censure, mi chiese allora cosa pensassi del libro, risposi che l’avevo letto con piacere ma che negli stessi giorni avevo letto con piacere anche l’ultimo fascicolo di Martin Mystere-Ah, quindi lei paragona Dan Brown a cose come Tex Willer?-Ho detto Martin Mystere, non mi sognerei mai, in una discussione come questa, di tirare fuori roba seria qual è Tex Willer.Mi chiese scusa.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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