Ed ecco perché oggi il mio personaggio del giorno è Antonio Pigliaru. Mi occorre un’informazione marginale su di lui per una ricerca che neppure lo riguarda. Frugo tra i suoi libri e tra quelli che parlano di lui e mi trovo tra le mani un opuscolo stampato da Iniziative Culturali nel 2005 che non ricordavo di possedere: “Le parole e le cose. Alfabeto della democrazia spiegato alla radio”, a cura di Rina Fancellu Pigliaru, con prefazione di Guido Melis e postfazione di Gianni Francioni. Mi è quasi estraneo, eppure lo devo avere letto, almeno certe parti, con una certa attenzione, perché vedo sottolineature che sono senz’altro mie. Cioè tracciate con il righello. E dipende dal fatto che io a mano libera più che sottolineature riesco a fare arabeschi che pasticciano cinque o sei righe sopra e altrettante sotto e quindi poi non riesco a capire bene che cosa volessi esattamente sottolineare. Comunque si tratta dei testi di una serie di conversazioni condotte dal grande filosofo a Radio Sardegna nel 1966. “Un lessico essenziale dell’esperienza democratica”, scrive Melis, che aggiunge: “Un vocabolario della politica, si potrebbe dire, ed anche forse del politichese dell’epoca, e dei suoi abusati termini chiave”. Vedo che quando l’ho sfogliato ho particolarmente sottolineato la conversazione sulle parole “Regione, regionale, regionalismo”. Il perché non lo ricordo. E’ vero che, se l’ho letto quando è uscito, sono passati dodici anni, ma insomma, non è poi un’eternità. E allora, ripercorrendo quelle sottolineature, mi rendo conto che forse in quel 2005, pur essendo già un brutto mondo e una brutta politica, non ritenevo ancora che quelle osservazioni di Pigliaru fossero una zattera alla quale aggrapparsi per non annegare nel mare di stupidità sul quale navigano ora quelle tre parole. Ho letto certi commenti ai risultati del viaggio di suo figlio Francesco a Roma dove ha rivendicato certi nostri diritti, purtroppo – per sua ammissione – senza troppo successo; commenti che comunque fanno rabbrividire. Da una parte le difese eccessive e schierate di una politica di scelte che avrà pure i suoi limiti, e dietro alcune di queste difese intuisci però la coda dello scorpione: gente che pur appoggiandolo formalmente vuole prendere le distanze da questo presidente che non attraversa un momento di popolarità. Dall’altro canto accuse banali, isteriche, condite sempre più spesso di questi umori alle volte decisamente e altre vagamente indipendentisti che evidentemente secondo alcuni potrebbero essere utili sul piano elettorale. E leggo allora quella vecchia conversazione radiofonica di Antonio Pigliaru: “… quel regionalismo chiuso di cui tanto spesso si parla e che vuol dire in definitiva una vita attenta solo alle cose che accadono e cadono dentro il cortile di casa, entro i confini ristretti del proprio orto, con un carico di eccessi che non tanto sono un segno dell’amore che si abbia per la propria terra… quanto un rifiuto totale di capire e vivere la storia di tutti”. Poi il paradosso magistrale. La parola “regionalismo”, aggiunge Pigliaru, “designa insieme una malattia mortale ma anche una presa di coscienza che è un modo di superare una condizione e di vincere una malattia, un modo di non uscire ma di restare nella storia. Ed è in questa seconda accezione ricca di significati, di pensiero e di determinazioni culturali che si può parlare, in contrapposto ad un regionalismo chiuso, anche di un regionalismo positivo, indicando con tale espressione uno dei punti più fermi di tutto il movimento della democrazia contemporanea”. Quando l’ha scritta, era una bella lezione di lessico politico, i significati di categorie ancora esistenti. Ora più che altro è una speranza.
La foto di Antonio Pigliaru è tratta dal libro di Mavanna Puliga “Antonio Pigliaru. Cosa vuol dire essere uomini” (Iniziative Culturali/Edizioni Ets).
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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