L’anno 1957, addì 6 del mese di Gennaio, alle ore 03.15, il sottoscritto Appuntato Micheluzzi Modesto Antonio, comandato presso la stazione CC di Marianopoli (CL), Legione Carabinieri Sicilia, rilevava quanto segue.
Il sottoscritto si trovava per ragioni non essenziali al presente resoconto, a stazionare presso il molo di levante del Porto Rifugio di Gela. Trattavasi di situazione disagevole, essendo un forte vento impegnato a soffiare con insistenza, cagionando un ripetuto frangersi di marosi contro la struttura stessa sopra la cui medesima, mi trovavo seduto. Detto vento era insolitamente freddo. Mi trovavo seduto sulla quindicesima bitta considerata partendo dalla radice del molo in direzione del largo. D’un tratto i miei pensieri, che ritengo superfluo riferire, venivano interrotti da un suono che non avevo mai udito prima. Confesso che la prima sgradevole impressione fu che fossevi, in qualche gradino della calata a mare, un ferito o persona comunque bisognevole di un qualche tipo di intervento. Infatti il menzionato suono richiamava, in modo strettissimamente simile, un respiro forzato. Sembravami in quel momento che un torace si contraesse e espandesse contro la sua stessa natura, essendo sottoposto alla forza di un aria più che sovrastante in volume e intensità rispetto alla capacità di quello. Alzatomi dalla bitta provavo a gettare l’occhio nel buio delle scale e oltre il bordo dell’ultimo scalino, nel mare, senza scorgere nulla. La notte si presentava senza luna, e confesso l’inquietudine che ho provato nel non vedere essere vivo alcuno continuando, purtuttavia, a percepire quel respiro. Tornando a sedermi non riuscivo a riprendere i miei pensieri di prima, a causa del persistere irregolare di quel soffio. Mi risolvevo allora di attribuire quello strano fiatare al vento. Tuttavia ben presto dovevo rivedere tale mia supposizione. Le raffiche seguivano infatti un ritmo differente. Erano ben riconoscibili e distinte, per cadenza e timbro, da quell’altro suono la cui fonte, malgrado le mie ricerche, persisteva nello sfuggirmi. Facevo allora un tentativo di allontanarmi dal punto di stazionamento, provando a percorrere la banchina nei due versi, avvicinandomi ora alla testata ora alla radice del molo. In ambedue i casi, quando mi allontanavo dalla bitta su cui ero precedentemente seduto, il respiro affievoliva fino a sparire, mentre appena accennavo a tornare sui miei passi, quello riprendeva fino a raggiungere la più forte intensità nei pressi della summenzionata bitta. Ero intenzionato ad abbandonare la mia postazione e recarmi presso il Comando della Capitaneria di Porto, che dalla mia visuale si presentava buia, eccezion fatta per una finestra in faccia al mare, dietro la quale presumo che il personale in servizio di guardia per la notte attenda la fine del proprio turno. Intendevo infatti rappresentare all’autorità competente per territorio, l’occorrente fenomeno. Immediatamente però, tornato all’altezza della bitta, dirigevo lo sguardo per terra ove notavo la presenza di una fessura nel bitume. Una fessura irregolare, lunga quanto tre palmi della mano d’un uomo, che nei punti di maggior distanza tra i due lembi si presentava di larghezza non superiore agli otto millimetri. Provavo a farmi ulteriore luce con l’accendisigari ma, per causa delle forti raffiche non riuscivo a dirigere le fiamma verso la fenditura per più di un secondo. Allora mi toglievo il cappotto e, carponi, me lo riponevo sulla schiena creando un riparo alla parte superiore della mia persona, e mentre con l’avambraccio sinistro reggevo il peso del mio stesso tronco, con la destra tentavo di avviare l’accendisigari, invano. Ebbene, in quella scoprivo che nonostante in quel piccolo abitacolo di fortuna non entrasse vento sufficiente per smorzare la fiamma, la stessa veniva puntualmente soffocata dall’aria che fuoriusciva dalla fessura. Non mi alzavo immediatamente. Avevo scorto alla fine l’origine di quel soffio. Quella sorta di respiro forzoso proveniva con tutta evidenza dalla lacerazione del bitume che sottendeva una più profonda feritoia nella struttura stessa dell’opera muraria. Allora mi affacciavo su uno dei due lati del molo, quello che pareva a me più illuminato, e pur con difficoltà e sporgendomi col capo verso il basso per meglio catturarne le immagini, mi rendevo conto che il pontile non consiste di una gettata piena come accade presso molti porti delle nostre coste ma che trattasi di opera sospesa su pilastri confitti sul fondo che in altezza raggiungono, grosso modo, il livello del mare. Il pontile vero e proprio, per parte sua, risulta invece sospeso a pochi centimetri dal mare stesso e adagiato su detti piloni. Il moto ondoso insinua così tra i piloni e quando, per la forza del mare, l’onda raggiunge, anche in porto, l’altezza di un palmo, come mi sembrava in quel momento, la superficie delle acque come una membrana spinge dal basso verso l’alto il cemento, e l’aria che non trova sfogo di lato si insinua nella fenditura e risale fino al piano di calpestio, dando all’orecchio impreparato l’impressione che la terra in quel punto respiri. Mentre a respirare in quello strano e inaspettato modo, ne devo concludere, è il mare. A conclusione di questo rapporto di servizio sono portato a domandarmi, Signor Maresciallo, se esso sia, in tutta onestà, necessario. Così pensavo evidentemente all’inizio. Non appena prendevo contezza del fenomeno ne dovevo infatti escludere nell’ordine la natura criminosa, quella violenta e quella legata a malanni occorsi a esseri umani o bestiame. Dovevo altresì eliminare dal novero delle possibili, un’eventuale spiegazione che chiamasse in causa forze non naturali né artificiali, e non mi si chieda di indugiare ulteriormente su questo aspetto. Avendo scoperto infine la reale natura di quel respiro, decidevo di perdere la corriera che alle 04.05 riparte da Gela con destinazione Marianopoli, optando per la successiva delle ore 13.25. La ragione di questa scelta è nel fatto che tra quattro giorni terminerà il mio servizio nell’Arma e con esso la mia permanenza in Sicilia. Tornerò infatti al mio paese che, come il Signor Maresciallo sa, cade nella provincia di Belluno. Dubito che, anche una volta terminati gli studi che spero presto di poter riprendere, avrò altre occasioni per assistere a un fenomeno come quello descritto. Prego dunque considerare con indulgenza il ritardo di circa tre ore con cui ho ottemperato all’obbligo di rientro in caserma dal periodo di permesso. Fatto, letto, confermato e sottoscritto in data di cui sopra App. Modesto Antonio Micheluzzi Porto Rifugio di Gela (CL)
Nacqui dopopranzo, un martedì. Dovevo chiamarmi Sonia (non c’erano ecografi) o Mirko. Mi chiamo Luca. Dubito che, fossi femmina, mi chiamerei Sonia. A otto anni è successo qualcosa. Quando racconto dico sempre: “quando avevo otto anni”, come se prima fossi in letargo. Sono cresciuto in riva a mare, campagna e zona urbana. Sono un rivista. Ho studiato un po’ Filosofia, un po’ Paesaggio, un po’ Nuvole. Ho letto qualche libro, scritto e fatto qualche cazzata. Ora sto su Sardegnablogger. Appunto.
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