Quella mattina, il supplente di terza fascia Alessandro Argiolas arrivò a scuola un’ora prima dell’inizio delle lezioni. Gabriele lo vide precipitarsi subito verso l’aula e scosse la testa, tornando alle sue fotocopie. Chiamato improvvisamente tre settimane prima a sostituire una leggenda come il Professor Picciau, Alessandro Argiolas per tre settimane si era diretto, ogni giorno, verso la sala proiezioni e Gabriele ogni volta aveva sorriso. Era un fatto naturale che un giovane supplente come lui cercasse su You Tube i documentari di storia più accattivanti per i propri alunni, dai sette Re di Roma agli elefanti di Pirro, aveva pensato, e in effetti catturare il gradimento della classe dopo quel cambio traumatico per Alessandro Argiolas non era stato un compito facile. Non che a Alessandro dispiacesse la storia, anzi, si era addirittura laureato in storia, ma l’impatto di quella materia con i ragazzi era sempre stato talmente problematico da scoraggiare persino i docenti più coraggiosi, figurarsi lui. Le lezioni di storia erano sempre state le più difficili. Bisognava scordarsi frasi tipo “la storia è maestra di vita” o “la storia è testimone dei tempi”. Erano frasi appartenenti ad altre epoche, quando i Padri, come allora si definivano i personaggi storici che avevano lasciato dietro di loro un’impronta indelebile, erano un modello di vita oltre che di studio. Ora, per i suoi ragazzi, la storia parlava semplicemente di persone morte, e tanto bastava per allontanarli irrimediabilmente dalle sue pagine. Alessandro aveva provato a immaginarsi Marcello o Enrico che facevano la fila per ammirare l’altare di Augusto. Da pazzi. Ora i ragazzi volevano poter toccare i loro idoli. E poi, idoli potevano essere al massimo il Che o Mandela, non certo Ottaviano. Pochi erano i personaggi storici che incontravano il loro favore, e in ogni caso erano soltanto i film dedicati agli eroi che riuscivano a farlo appieno. Una settimana prima erano stati con la Prima, in sala proiezioni, a vedere Trecento. Leonida stava arringando i suoi spartani invitandoli a fare una lauta colazione, perché la notte avrebbero sicuramente mangiato tutti assieme nell’Ade. Improvvisamente si era fatto silenzio. Una frase tanto roboante quanto sproporzionata avrebbe in un’altra sede sollevato risa di scherno, e invece qui aveva praticamente catturato l’anima di venti fanciulli. In realtà, con quella fotografia e quegli effetti speciali, persino il tozzo Scilipoti avrebbe ottenuto in quel momento un sacrale plauso dai suoi alunni. Ma non era sempre così. Non si poteva sempre volare oltre l’Olimpo. Bisognava avere una coscienza da insegnante, ogni tanto bisognava inchiodare i propri poveri alunni alla dimensione impietosa del nozionismo storico. Allora bisognava passare dalla Guerra del Peloponneso alle Guerre puniche, simulando una serietà professionale tanto costruttiva quanto impietosa. Le Guerre puniche. Le forche caudine dell’insegnante di storia. E tanto valeva affrontarle subito. Ogni volta era sempre durante la spiegazione delle Guerre puniche che Alessandro viveva le ore più tese del suo anno scolastico da supplente. E il momento era arrivato anche quell’anno, improrogabile. “Bene, ragazzi. Abbiamo visto come Pirro, tentando di sconfiggere le legioni romane avesse sconfinato in Sicilia dove fu chiamato in aiuto dalle città greche”. Aveva appena finito di formulare il primo concetto, che i ragazzi mostrarono subito i denti. Non era quello che si aspettavano. “Ma prof, a cosa serve studiare la storia?” Rieccoci, si disse. “La storia ci insegna a non ripetere più gli errori del passato, a far rivivere i monumenti delle nostre civiltà”, abbozzò lui, più stanco che incerto. “Sì, ma la storia romana…” “La storia romana più di ogni altra”. Era fiero della sua risposta, ma non era finita. “Prof, quando studiamo Hitler?” Era qui che li voleva. Hitler. L’ossessione di generazioni di giovani confusi. Ma in fondo era un messaggio subliminale: prof, si fermi qui, e arrivi almeno fino a Cesare. E qui fece l’errore di non tenerne conto. Continuò. “La repubblica romana aveva ormai bisogno per le sue merci di un nuovo mercato, quello mediterraneo, dove Cartagine deteneva il monopolio dei commerci”. Così fu in quel preciso istante o giù di lì che si cominciò a sentire un ritmico ticchettio che invase magicamente l’aula. Alessandro fece finta di niente, ma il ticchettio continuò. “Chi è che sta battendo sul banco?”, disse, volutamente accigliato. Silenzio. Avrebbe dovuto aspettarselo. Era il loro modo di ribellarsi a quella che sentivano come un’imposizione, cieca quanto incomprensibile. Improvvisamente suonò un cellulare. Si precipitò a bloccare quell’ennesimo tentativo di sabotaggio. Me la stanno facendo pagare, si disse, ma ormai era troppo tardi per rimediare. Così, cercò di ricomporsi e seguì le norme del vivere civile. “Di chi è questo cellulare?” Silenzio. “Non vi devo certo ricordare che l’uso dei cellulari a scuola è stato severamente vietato”. Silenzio. Ma il cellulare riprese a suonare. Si alzò, si apprestò a individuare la provenienza del suono, quando lo squillo terminò e lui finì con l’apparire più ridicolo che mai. Si accorse, anche, di alcuni sorrisi maliziosi che si prendevano gioco della sua insospettabile ingenuità. Doveva guadagnare terreno, ormai era una guerra, punica o meno. Osservò Michael. Sbuffava in continuazione, a lui la storia non piaceva nemmeno un poco, gliel’aveva confessato parecchie volte, anche in pubblico. Deborah e Simone chiacchieravano incessantemente tra di loro. Maurizio si alzava senza chiedere il permesso, si avvicinava alla finestra e guardava oltre, come se improvvisamente dietro il cortile si fosse materializzato qualcosa di assolutamente imperdibile. Era il caos. Quando riprese il ticchettio, lui provò a minacciare. “Bene, l’avete voluto voi. Adesso vi prenderete una nota di classe che vi penalizzerà nel già scarso rendimento che avete evidenziato finora”. Si avviò e d’incanto si scatenò un putiferio. Quelli che prima erano docili agnellini (almeno apparentemente) ora erano diventate belve rabbiose, pronte a difendere fantomatici diritti calpestati. “Lei non può mettere una nota all’intera classe”. “Io non stavo facendo niente, come fa a mettermi una nota”. “Io stavo seguendo”. Per Alessandro questi erano i momenti in cui incespicava, sudava. Non era un freddo stratega del processo educativo. A volte improvvisava. In quel momento, però, sapeva che doveva far qualcosa, e allora cominciò a scrivere una nota. Ovviamente sarebbe servita soltanto per salvare la faccia, perché il chiasso non minacciava di scemare. Una nota di classe non era mai risolutiva. La maggior parte dei ragazzi riprese infatti a chiacchierare e se possibile lo fece in tono ancora più risentito di prima. Si sedette e tentò di rimettere ordine nella sua testa. Rimase a fissare i volti arcigni dei suoi alunni. In loro sembrava non essere cambiato nulla dall’inizio della lezione, ma, d’un tratto, senza alcun preavviso, scoppiò il fattaccio. Marcello tornò dal bagno e spruzzò dell’acqua in faccia a Michael. In breve si scatenò la rissa. Michael non aveva gradito e aveva reagito prontamente dando un pugno in testa al compagno. Nelle acque della Sicilia i romani combattevano duramente e nella sua classe i suoi due alunni più vivaci erano pronti a menare le mani. Così, mentre si avvicinava, si sentiva come Attilio Regolo che sbarcava in Africa per mettere l’assedio a Cartagine. Provò a dividerli, ma poi prese una decisione. Marcello si sarebbe preso una nota individuale. “È stato Michael a picchiarmi per primo”, provò a giustificarsi lui. Michael tentò di difendersi, e Alessandro lo zittì. Era molto stanco, ma tentò egualmente di spiegare il senso di una reazione spropositata. Michael infierì, alzando la voce, e allora estese la nota anche a lui. Ritornò il silenzio. Ora gli unici a discutere erano i due fantomatici bulli. Il clima, lentamente, si era placato e Alessandro, non sapeva nemmeno lui perché, era deluso. La nota era sempre una sconfitta, mai niente sarebbe stato più come prima dopo una nota. E poi bisognava chiedersi perché si era arrivati alla nota: se avesse soltanto accennato alle guerre puniche e fosse passato direttamente alle loro conseguenze sociali ed economiche, si disse, sarebbe andata diversamente? Forse non avrebbe mai avuto una risposta, e in più ora doveva essere coerente con ciò che aveva appena fatto. A scuola non c’è tempo per i ripensamenti. Probabilmente sarebbe stato costretto a continuare nella spirale punitiva, sino ad arrivare, magari, alla sospensione, mai sarebbe potuto tornare indietro, ne sarebbe andato pericolosamente del suo prestigio, ne sarebbe andato della Sicilia. Così continuò. Passò dalla battaglia di Milazzo a quella delle Egadi senza nemmeno concedersi un respiro. Vide i volti dei ragazzi rilassarsi per un attimo soltanto quando accennò alle passerelle che avevano permesso ai geniali strateghi romani di trasformare una battaglia navale in una terrestre, dove essi erano molto più preparati. Continuò, ma lo fece soltanto per rispettare i ruoli. Non ne era fiero. E così pensò già alla successiva lezione. Prepariamoci alla seconda guerra punica, pensò. Se saremo fortunati faremo pochi prigionieri. Era la regola della storia. E poi, se fosse andata male, ci sarebbe sempre stata una scappatoia. C’era già pronto Il Gladiatore in sala proiezioni.
In questa categoria sono riuniti una serie di autori che, pur non facendo parte della redazione di Sardegna blogger collaborano, inviandoci i loro pezzi, che trovate sia sotto questa voce che sotto le altre categorie. I contributi sono molti e tutti selezionati dalla redazione e gli autori sono tutti molto, ma molto bravi.
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