Passavano gli aerei su un cielo asciutto e senza troppi colori. Denso e arroventato. Passavano gli aerei come mosche su una torta, con i loro pungiglioni e i rumori assordanti. Lasciavano una traccia lunghissima, come una ferita. Lui, colorando gli occhi di deserto e lontananza, osservava caracollando sulle parole che non arrivavano. Ma aspettava e tentava di capire quel volo a cosa potesse servire. E sperava, un giorno, di poter mettere le ali per superare dune e sangue rappreso, lacrime condensate e facce da dimenticare. Un giorno. Che non arrivava. Volerò un giorno. Per sorpassare questo muro che non mi appartiene. Che mi ha rubato gli anni di una vita ancora da spendere, che ha deciso, senza chiedermelo, come finisce il mio orizzonte. Grigio e con un contorno di filo spinato. Mio padre, Rameshid il corto, dice che il mondo non è allegro dalla parte degli israeliani. Non so se dica la verità e se davvero gli israeliani siano tristi, ma un mio amico, Jushia l’ ebreo, ha sempre un sorriso da regalare e non sa neppure cosa sia la tristezza. Mi ha detto, un giorno, quando ancora ci si poteva incontrare, che questo muro non è insuperabile. Ha detto che ci vuole internet e che se ci scriviamo in qualche chat possiamo parlarci e distruggere il muro. Ho risposto che ci vuole un aereo, qualcosa per superarlo e che io non ho il computer e non averlo significa avere un muro nel muro. Mio padre, Rameshid il corto, dice che non diventerò mai un aviatore perché ci vogliono molti soldi e il mio destino è stare da questa parte del muro. Per sempre. Hanno costruito un muro per paura. Di che cosa non si capisce. Qui si muore da tutte le parti: In Israele e in Palestina. Terre antiche, dice un vecchio senza denti che suona tutti i giorni un’armonica. Dice lui che se ne frega del muro. Basta la musica. Da grande voglio fare l’aviatore che vola più in alto del muro e planare sulle nuvole suonando l’armonica, così riempio il cielo di musica. Allora io, da grande, diventerò un grande aviatore che supera i muri di tutto il mondo e che suona alle stelle e coltiverò di sogni tutte le terre che vedrò da quel cielo stellato e canterò una canzone con le note di un’armonica a bocca. Passavano gli aerei su un cielo asciutto e senza troppi colori. Farik non sarebbe diventato un aviatore. Perché, in fondo, il volo non appartiene all’uomo e l’aereo è solo un mezzo. Non sarebbe diventato un grande musicista in grado di distribuire note in mezzo al cielo, ma strimpellava la chitarra che qualcuno, da qualche parte del mondo, ombelico nascosto di terra, gli aveva regalato per Natale. Non aveva orti o deserti da coltivare. E il futuro era davvero incerto. Aveva un piano però. Che non raccontava a nessuno. Faceva parte di un segreto. Una matita e un foglio bianco. Scriveva. E correggeva. Rivedeva e riscriveva. Poi, quel foglio gli sembrò perfetto. E lo spedì. Per posta aerea. Per volare in alto. Caro presidente Obama, lei che con lo stesso colore della mia pelle – più o meno – è riuscito a diventare un persona molto importante, gli chiedo un piccolo favore. Vorrei venire a New York. Per qualche giorno. Signor Presidente, vorrei andare a vedere il ponte di Brooklyn, quello che unisce il mare con la terra. Lo vorrei disegnare. Mi serve perché dalle nostre parti c’è un muro che mi limita l’orizzonte e lei, Presidente Obama ha sempre detto che dobbiamo guardare lontano. Che ne abbiamo il diritto. Io non ci riesco e non è molto giusto che un bambino non possa coltivare i propri sogni. Lei, in campagna elettorale aveva uno slogan: we can. Mi dicono che significa si può fare. Ecco, signor Obama, anche questa cosa del ponte si può fare anche perché, a Betlemme i miracoli, a volte riescono. Ciao Presidente. Aspetto. Ah, dimenticavo, mi chiamo Farik l’aviatore. Non ho cognome, ma da queste parti non serve. Anche Gesù, quello dei miracoli, mica ne aveva uno e ha funzionato ugualmente. Farik l’aviatore scruta il suo limitato orizzonte. Il ponte magari non riuscirà a costruirlo, ma ha comunicato a tutti che quel ponte gli serve per poter crescere. Le idee non si possono realizzare, a volte, ma è bello farle conoscere. Farik l’aviatore, aspetta. Con la sua chitarra e con il suo sguardo smorzato. Aspetta di poter crescere e contare le stelle. Di tutto il firmamento.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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