L’orgia consumistica natalizia non si esaurisce attraverso l’acquisto compulsivo di materiali superflui per sedare la mancanza di valori, oltre appunto a quello di accumulare e consumare, ammesso e concesso che di valori si tratti. Nel periodo vacanziero invernale – dove è possibile vedere di tutto, compresa la Gelmini che canta Tu scendi dalle Stelle! –, l’orda famelica, come una massa di pinguini, si sposta anche nei cinema per soddisfare il proprio bisogno di evasione, ovvero guardare qualcosa di poco impegnativo, in modo da prolungare il delirio fagocitante del niente. Come se poi, durante l’anno, gli stessi spettatori frequentassero con assiduità biblioteche e cineforum per gustarsi rassegne d’autore. Ad ogni modo, questa necessità di distrazione è nutrita dai cosiddetti «cine-panettoni», pellicole in cui si alternano a storie mielose e mal recitate, oltre che mal scritte, rutti e scoregge neanche troppo metaforici. In questi giorni (e in questo contesto, appunto), la Tv di ogni canale nazionale, dalla pubblicità ai telegiornali, continua a parlare del nuovo film del pugliese Checco Zalone (nome d’arte di Luca Pasquale Medici), Quo vado? che fa presagire una sorta di record assoluto d’incassi della storia del cinema italiano. Qui la popolazione italiana si spacca in due (come per la politica), in una sorta di tifoseria calcistica: c’è chi dopo aver visto il film si spinge a definire Checco Zalone un genio cinematografico assoluto; chi invece non ci va mostrando il proprio disgusto. In ogni caso, alle casse delle oltre milleduecento sale in cui è stato distribuito, ci sono orde barbariche che bramano popcorn e coca-cola. Il punto è che, con grande delusione di taluni, della volgarità di Christian De Sica e Massimo Boldi, questa volta, bisogna darne atto all’attore comico di Bari, neppure l’ombra. Niente deiezioni per far scattare le grasse risate da bar dello sport; niente «gnocche» stratosferiche e incapaci di pronunciare anche la più banale delle battute, utili però a ricordare il machismo pecoreccio e misogino dei cittadini di sesso maschile (la gnocca è gnocca e anche Zalone a dire il vero non dimentica in quest’ultimo lavoro che «tira più un pelo di figa che un carro di buoi»!). Ma soprattutto, con mia grande sorpresa, niente battute sui froci che ormai accompagnano la comicità italiana da almeno mezzo secolo, da Lino Banfi a Crozza, passando per Aldo, Giovanni e Giacomo. La cosa può sembrare strana, è vero, giacché Zalone non si è mai sottratto nei suoi siparietti televisivi dal divertire dileggiando gli omosessuali per intrattenere pubblico e presentatori anche radical-chic di sinistra come Daria Bignardi o Fabio Fazio. Come la sua parodia, brutta quanto offensiva, di Tiziano Ferro, a cui non so se per motivi di marketing, ha fatto seguire delle scuse. D’altro canto la «battuta sul frocio», è un cult, è il politicamente scorretto per eccellenza che piace alle famiglie che devono gestire la loro fede dalla benedizione della casa al carbone zuccherato dell’Epifania. Senza il frocio non esiste divertimento. I doppi sensi in cui si allude alla sodomia come il male dei mali, esorcizzata appunto dalla risata dell’etero mai pentito, fa parte della struttura semantica dell’intera comicità italiana: nei film nazional-popolari, in genere c’è un lui, media età e bruttarello, che ambisce a una lei, per decenni incarnata da una top-model, che però guarda caso è amica o sorella o erroneamente sposata a un “culattone”, per dirla alla Renato Pozzetto, il più squallido omofobo del cinema della nostra penisola (il miliardario che fa la pubblicità a Orocash!). Queste pellicole dunque non si spingono più in là dal mostrare che il culattone (in genere effeminato) fa ridere quando non è un «malato» da compatire, e naturalmente che è sempre un pervertito meschino che deve «inculare» a tradimento chiunque sia di sesso maschile. Interi personaggi sono stati costruiti per denigrare l’omosessualità. Persino la satira di sinistra più impegnata non si è sottratta dall’utilizzare con passione la metafora per eccellenza, quella appunto dell’inculata: Vauro Senesi, l’ultimo dei veri comunisti, ha passato un anno a fare vignette in cui alludeva al governo Monti come di un esecutivo che metteva l’ombrello in culo al cittadino (sempre rappresentato a «pecorina»), e l’ultima invenzione di Maurizio Crozza, nel suo Crozza delle Meraviglie (La7), fa la parodia di una fantomatica multinazionale dal nome allusivo Inc.Cool8, ovvero una società che alla fine te la mette sempre nel culo. Come a ricordare agli italiani che possono essere disoccupati, mafiosi, perbenisti, corrotti o cialtroni, ma che il male peggiore continua a essere quello di prenderlo in quel posto. Dunque, per quando i miti cinematografici siano altri (da Rossellini ad Almodóvar), vorrei proporre alcuni elementi di riflessione su un film che rischia davvero di lasciare tutti i produttori di sasso e che scavalca persino le promesse da marinaio di Renzi e del suo club Leopolda, rispetto ad alcuni temi. Partiamo dalla sinossi del film: un impiegato pubblico, cresciuto a privilegi e raccomandazioni, un giorno, grazie a una nuova normativa sulla ristrutturazione delle Province, rimane senza «posto fisso». Da questo istante iniziano le sue sventure. Il Senatore Nicola Binetto (Lino Banfi) che l’ha piazzato a timbrare permessi di caccia, lo stesso che un tempo sistemò il padre, lo consiglia di non cedere alle lusinghe di una dirigente che lo vorrebbe liquidare con poche migliaia di euro. Così resiste anche quando si ritrova in Norvegia nella mansione più assurda che gli potesse capitare: seguire una ricercatrice italiana, Valeria (Eleonora Giovanardi) che vuole salvare gli orsi bianchi dall’estinzione. E naturalmente è amore a prima vista. Fin qui niente di particolare, insomma, persino un po’ banale: le battute che si susseguono appartengono a quella comicità tipicamente televisiva (alla Zelig, alla Colorado o trasmissioni analoghe) che ha distrutto un linguaggio fatto di metafore e riferimenti culturali. Per quanto genuine, le battute di Zalone sono sempre didascaliche come quelle delle sceneggiature americane, mai compromettenti fino in fondo. E non si può neppure considerare un’evoluzione di quel personaggio straordinario che fu il ragionier Ugo Fantozzi, all’analisi antropologica che Paolo Villaggio riuscì a dare della società italiana parlando appunto di posto fisso. Fantozzi fu una maschera: il suo geniale ideatore decise di incarnare su di sé lo stereotipo per costringerlo al paradosso più eccessivo. Faccio solo un esempio: Fantozzi ha una moglie (la signora Pina, prima interpretata da Liù Bosisio poi da Milena Vukotic, che ha la pelle grigio topo) e una figlia orribile, ma come tutti gli italiani sogna di scappare con una collega, la signorina Silvana (Anna Mazzamauro), che è tutto tranne che una «bella gnocca». Il genio satirico sta in questo: Paolo Villaggio comprende come la questione non sia desiderare una donna bellissima, ma l’idea del desiderio dell’italiano medio che deve sposarsi e figliare, per poi inesorabilmente desiderare qualcosa che non gli appartiene, un’idea astratta. Dunque, gioca sulla meschinità ipocrita dell’italiano medio. Nel film di Zalone niente di tutto questo, niente analisi critica, neppure una reminiscenza: vengono descritti i vizi più comuni degli italiani ma non sono un elemento di rottura. Sussiste solo un certo cinismo. Come appunto la comicità televisiva della sit-com Camera Cafè (con Luca Bizzarri e Paolo Kessisoglu), un programma che a modo suo ha fatto storia, da un lato per l’idea originale, dall’altro perché riesce a descrivere la trasformazione socio–culturale della realtà lavorativa in cui si trova oggi un cittadino del nostro paese. Tutto però rimane edulcorato e stereotipato nei suoi personaggi, frocio compreso (sottomesso e vilipeso come la collega brutta. Oggettivamente culattoni e donne orribili – cozze, cesse, befane, mostre – sono considerate nei film di Banfi, Pozzetto e Renzo Montagnani alla stessa stregua, ovvero soggetti da emarginare). Tornando a Quo vado?, nel momento in cui Checco arriva in Norvegia e s’innamora di Valeria, accetta anche di mettersi in gioco e qui a mio avviso, mantenendo la stessa semplicità o se preferite banalità (e anche una certa dose di onestà intellettuale, però), il film fa un piccolo salto di qualità che nessuno si aspettava costringendo il suo pubblico, ebbene sì!, a pensare senza ridere sguaiatamente (qualcuno forse si sarà messo persino a chattare su Facebook per la noia). Perché non solo si trova a vivere in un paese dove la gente non suona il clacson ai semafori, rispetta le file, dove non ci sono raccomandazione e mazzette e le cartacce non si buttano fuori dal finestrino, ma in un paese dove il Contratto Sociale rousseauniano non è sancito da una pletora di clericali, ma da una costituzione laica. Valeria (l’attrice è molto carina oltre che brava) è disinibita, ma non nel senso di Edwige Fenech o Gloria Guida, non mostra sempre le tette e la «gnocca» per far sbavare gli uomini dai quindici anni in su, gli stessi che poi si inginocchiamo nei confessionali. È una madre di tre figli, di cui uno nero, avuti con tre compagni diversi e sul suo tablet c’è pure una foto ricordo con una donna con la quale ebbe una storia d’amore. A Checco per amore non resta che mettersi in discussione e raccontare le differenze di civiltà: in una scena, lei prima di mangiare fa una piccola preghiera in lingua inglese, ma palesemente cattolica. Checco è già pronto per ingoiare il boccone, ma il primo figlio nero rivendica il suo diritto di ringraziare Allah, poi la seconda figlia di origine asiatica fa un’orazione a Buddha. Checco si è già rassegnato al terzo ringraziamento, ma il ragazzino si proclama con convinzione ateo. La scena in sé è semplice, ma comunica qualcosa di più di una retorica sulla tolleranza: dimostra che nei paesi civili le leggi dello stato non riguardano le scelte dei cittadini se non per farli stare meglio. Libere religioni, in libero Stato! Così, quando i genitori di Checco vanno a trovarlo, dovranno anche assistere al matrimonio gay di uno degli ex compagni di Valeria che si sposa con un ragazzo nero. Parliamoci chiaro, un passaggio cinematografico come questo non fa quanto il coming out di Tiziano Ferro (per tornare sul luogo dell’omicidio e che quest’estate ha realizzato un sold out nel suo tour negli stadi, forse grazie anche quell’ignobile parodia), ma certamente fa molto di più di quello che fino ad oggi hanno combinato personaggi pubblici imbarazzanti quali Vladimir Luxuria che balla al Gay Village con il Senatore Razzi, Paola Concia e le sue pietose comparsate da Barba D’Urso, e allo strepitoso Giulio Andreotti in versione omosex, al secolo Ivan Scalfarotto. E lo spettatore italiano, anche il più triviale, si trova ad ammettere che peggio dell’Italia, come avrebbe detto Giorgio Gaber, solo in Uganda. Il finale è un po’ retorico, una strizzatina d’occhio al buonismo che c’è in noi, un volemosebbene che poteva risparmiarsi, ma in un paese che diventa razzista al momento buono, forse non guasta: Checco rinuncia per amore a quel posto fisso che non avrebbe voluto lasciare mai per approdare in una missione africana con la sua nuova famiglia fatta di diversità umana, in tutte le sue forme. Quindi, senza salire sul carro del vincitore d’incassi (che si affretta a dichiarare che non ha mai avuto intenzione di fare della sociologia), come si dice: chapeau! Poco importa se non approva le adozioni gay, non è Checco Zalone che fa le leggi. Non è lui che deve preoccupare, come non doveva preoccupare il signor Barilla e i suoi surreali spot con la sacra famiglia ormai del tutto anacronistica. Chapeau! per proporre un tema così a Natale, viste le polemiche degli ultimi tempi; Chapeau! per non annoiare mai durante i novanta minuti di film; e infine Chapeau!… e già vedo gli intellettuali de l’Unità e Repubblica che compatiscono tanta superficialità, per aver tentato di alzare il livello medio del cinema italiano che si è ulteriormente abbassato da quando Walter Vetroni dalla politica è passato alla regia.
In questa categoria sono riuniti una serie di autori che, pur non facendo parte della redazione di Sardegna blogger collaborano, inviandoci i loro pezzi, che trovate sia sotto questa voce che sotto le altre categorie. I contributi sono molti e tutti selezionati dalla redazione e gli autori sono tutti molto, ma molto bravi.
Renatino e i misteri di Roma (di Giampaolo Cassitta)
Cara Cora (di Francesco Giorgioni)
The show must go on (di Cosimo Filigheddu)
Vincerà Mengoni. Però… (di Giampaolo Cassitta)
Ero Giorgia, e ricanto. (di Giampaolo Cassitta)
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